C'è sempre una montagna.
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C'è sempre una montagna.

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Angelo Case, Minusio

II locale, cinque metri per quattro. Tavoli di media dimensione contro le quattro pareti. Un tavolone al centro. Alcuni scaffali con i ripiani colmi di formulari e di buste. Tre cesti per raccogliere la carta straccia, le prime copie delle relazioni sulle manovre, le cicche delle sigarette di tutti gli addetti al comando, la velina delle cara-melle del furiere, il quale, unico fra tanti, non sop-portava il tabacco.

Matteo, la luce della finestra sulla destra, batteva i tasti della macchina per scrivere con l' indo che può artigliare un soldato di quaranta anni, chiuso per dodici ore al giorno in un locale scialbo di Una scialba caserma in un paese più che scialbo anonimo. Ricopiava il rapporto che il comandante gli aveva scritto in fretta su un foglio intestato dell' esercito ( ogni definizione stampata nelle tre lingue ufficiali della Nazione ). Quella mattina stessa, era prevista la visita del brigadiere Gi.: e il comandante, eccitato, aveva buttato giù mezza pagina di appunti, abbreviature, sigle, numeri di codice; verificasse Matteo la giustezz^ di ogni riferimento; la voce nasale; la faccia rasata e sulla pelle un profumo che non si addiceva per niente a una pelle di comandante, dolce come era e persistente nello stanzone, violette o garofani.

Il rapporto era uno dei soliti rapporti che ogni giorno venivano spediti per espresso al comando superiore della brigata. Poche righe, in fondo: ma distribuite secondo paragrafi numerati. Tanto per informare sull' andamento del corso di ripetizione coloro che erano rimasti di là dalle montagne, nella pianura calda del meridione. E, importante, sottolineato doppiamente, l' effettivo numerico del distaccamento alpino ( i militi suddivisi in ufficiali, sottufficiali, soldati ): negligendo peraltro il fatto, del tutto normale in quella caserma, che il computo fosse quotidianamente insincero, calando, a dire il vero, come se dilagasse, fra la truppa, un' epidemia colerica. Il comandante, burbero solo nella smorfia della bocca, non sapeva rifiutare le domande di congedo ( rilasciato per motivi cosiddetti improrogabili di lavoro: chessò, un acquedotto comunale, in qualche remoto angolo di valle, che necessitava un urgente intervento; una vendemmia, su un ronco avaro, che minacciava di andare alla malora; il rendimento già precario di una piccola azienda di tipo familiare. Oppure per ragioni più strettamente umane: le provviste settimanali che una madre, invariabilmente vecchia e sola, reclamava da un letto di dolore; la gastrite acuta che aveva colpito a tradimento la figlioletta ultima nata; la sciatica in-cattivita di un fratello corresponsabile nella con-duzione di un' impresa edile ). Le controfirmava tutte, domande scritte da mani poco abituate a scrivere, scritte soltanto per via di una noia che doveva essere rotta, allontanata sia pure per un tempo esiguo di ventiquattr' ore.

Quindi, spazio bianco, doppio spazio bianco, [-, venivano indicate, nel rapporto, le esercitazioni quotidiane, con invenzioni inesauribili, affinchè le ore potessero scemare in maniera sopportabile. Ogni giorno, d' altronde, esigeva la novità appropriata per strabiliare i destinatali della missiva, appunto i diretti superiori, maggiori e colonnelli. Dovevano restare sull' opinione, avuta durante un' ispezione, che, alla resa dei conti, era apparsa una colossale farsa, di avere a disposizione un distaccamento alpino, eccellente, addestrato al massimo: addirittura, come non aveva mancato di affermare, serio e impettito, un tenente colonnello, la spina dorsale dell' intero esercito nazionale. Sulla carta, una truppa efficiente, da mettere la mano sul fuoco. In realtà, l' attività si risol-veva, con monotona assurdità, in dislocazióni sulle alture meglio occultate, in dormite al riparo di qualche cascina, negli scherzi più idioti che uomini inoperosi potessero escogitare. Tabelle cronologiche immancabilmente mandate all' aria, appena il cielo si presentasse sereno, invogliando ciascuno — comandante compreso — all' imboscata più ardita.

Il solito rapporto dunque: che Matteo cercava di rendere perlomeno leggibile, correggendo gli errori che l' insonnia notturna ( amatoria, com' era risaputo ) del comandante lasciava cadere ogni tre quattro parole: sbagli di forma, il contenuto essendo chiarissimo: bendaggi, fissazioni di immaginarie fratture ossee, trasporti a spalla o su barelle o con aggeggi rotabili: respirazioni artificiali, bocca—naso, bocca—bocca: con relative prove della temperatura: con le assistenze sanitarie ai civili ( uomini, donne, bambini, ecc. ecc .) coin-volti dallo scoppio ( simulazione su simulazione ) di una granata nemica, di un obice, perfino di una bomba atomica sganciata tradendo i codici internazionali sulla pacifica convivenza.

Matteo ricopiava il rapporto con l' inedia più inedia, ingrugnato, insonnolito consapevole di essere uno dei pochi uomini di tutta la compagnia avente un incarico corrispondente a quanto era stabilito nel Mannschaftskontrolle, nero dossier segreto, chiuso a chiave assieme ad altri atti ugualmente segreti, in una cassa metallica situata sotto la scrivania del comandante, al centro della parete principale: ordinanza d' ufficio, dunque, alle dirette dipendenze del capo ( il quale, sergente com' era dalle mostrine della tunica, era stato pareggiato, in occasione del corso alpino, per chissà quali astnise clausole del codice militare, a un primo tenente, uguali diritti sia per quanto riguardava l' organizzazione delle manovre, sia per quanto concerneva la camera, fissata all' Ho Suisse, ben distante dalla caserma, telefono 087/54632 in caso di urgenza ). D' altronde, ciascuno dei militi ( tranne qualche poveretto messo, in conseguenza di una sbronza leggermente al di sopra della media, a sbucciare patate o a cuocere polpette in cucina, o chiuso nell' esiguo locale postale a timbrare buste ( private ) o messaggi ( ufficiali ), era considerato, nei discorsi serali l' appello principale, tutti in riga, tuniche abbot-tonate, bonetto in testa, cinturone in ordine, qualcosa in più del grado realmente inscritto sul libretto di servizio. Sicché il caporale assumeva funzioni solitamente riservate ai sergenti: e i soldati, chi più chi meno, erano definiti « facenti funzione di capo gruppo », con l' incombenza cioè di decidere, sul cf mpo, qualsiasi, anche se minima, mossa strategica nella commedia, in vari atti e scene, di quel corso complementare. Com' era successo, ad esempio, il giorno precedente, nemmeno l' ombra di una nuvola in cielo, quando i barel-lieri, scantonando oltre lo stand di tiro, si erano sdraiati al sole dietro due baite, commutando le barelle in comode sedie a sdraio: o quando gli autisti, dirette le Mowag e le jeep fuori dai confini strettamente militari, avevano avuto la fortuna di scorgere l' insegna di un' osteria, in cui bere, lontani gli orgasmi della finta battaglia tra rossi e azzurri, qualche boccale di vino. I soldati-soldati si potevano contare sulle dita di una, diciamo due, mani. Per questo motivo forse, altamente psicologico, la stragrande maggioranza dei militi pigliava il corso con filosofica rassegnazione, se non con un orgoglio inconsueto: rammentando ciascuno, tra sé e sé, come nella vita civile la qualifica fosse unicamente di operaio-operaio, di mano-vale-manovale, di contadino-contadino. Vale a dire una condizione posta sempre alle dipendenze dell' umore, alto o basso, di un caporeparto, di un maestro muratore, del tempo atmosferico medesimo. Elementi tutti, contro i quali c' era ben poco da scombattere, una ribellione equivalendo alla condanna di una multa, del licenziamento, in poche parole del pane. Pane, per contro, assicurato nell' esercito come vuole l' orazione: e perfino in abbondanza.

Matteo batteva sui tasti: la lingua cercando di districare qualche rimasuglio di mollica tra molare e premolare: il pensiero lontano dal rapporto. Pensava a tutti quelli della sua famiglia che, indietro negli anni, avevano portato quel suo nome. Il nonno. Il nonno del nonno. E così di seguito, come aveva potuto constatare nell' archi parrocchiale, sfogliando, il registro dei batte-simi, una generazione sì e una no, il nome ricom-pariva come un marchio di razza per gli Zanchi. Sicché, il figlio di suo figlio, posto che suo figlio, ora decenne, si fosse sposato e avesse generato qualche figlio, non sarebbe sfuggito all' usanza. E di usanze, in paese, ogni famiglia ne aveva da rispettare. Usanze in bene; ma perfino in male. Una usanza moriva soltanto quando una famiglia si estingueva. Per esempio: i Santorelli, chiamati da secoli, grattagalline, per il vizio notturno di sgalli-nare i pollai. O i Raspitti, detti i ciechi, perché, falciando, fingevano di non vedere i termini tra le terre loro e quelle degli altri. O i Carelli, meglio conosciuti come i calvi, in quanto, sia i maschi sia le femmine, arrivata una certa età, perdevano i capelli nel giro di poche settimane e a nulla potevano i decotti di ortiche o di foglie di betulla con cui massaggiavano le cotiche del cranio prima d' andare a dormire. Altre usanze andavano perfino oltre i limiti della moralità come s' intende fra cristiani. Quella di farsela con le capre sulle pasture, per: o d' incendiare i boschi del patriziato per: o ancora d' inquinare il fiume per vendicare chissà quale torto subito, per. Per loro Zanchi, l' usanza che insuperbiva Matteo era di arrampi- carsi, ogni primavera, primi sugli altri del paese, fin sulla cresta del Colmigno. Andarci, non già seguendo il sentiero normale, ma tagliando i boschi e le ganne, secondo scorciatoie che nessuno al paese nemmeno immaginava: ma che ogni Matteo vecchio confidava al figlio affinchè il figlio, al momento giusto, potesse confidarle al Matteo giovane, tutta una catena di confidenze biascicata perfino in punto di morte, com' era stato di suo nonno per suo padre, un filo di voce tenuto in vita a fatica, più di là che di qua, sotto la carica di piode che, ribaltando dal filo a freno rudimentale che collegava Rasoira e Vaudo, gli era rovinata sopra, fracassandolo.

Matteo aveva pensato all' usanza, quando, volti gli occhi alla finestra, le montagne innevate, che si alzavano proprio di fronte alla caserma, lo avevano quasi inorbito con il gran bianco. Si era alzato, avvicinandosi ai vetri. Le montagne salivano verticali, appena di là dal piazzale della caserma; la strada in terra battuta partiva addirittura dal cancello tra le due garitte della sentinella e tirava su fino al primo dosso per poi sparire e ricomparire, sottile linea nera tra il bianco, più in alto. Quand' era giunto, due settimane prima, e per otto giorni filati, non le aveva viste, le montagne. La nebbia d' ottobre stenta a risalire: e, bassa com' era stata bassa, non aveva lasciato agio neppure all' occhio smaliziato di Matteo di cercare, nello spessore grigio, almeno il confine tra montagne e cielo. Aveva bene capito che dovevano esserci montagne alte; non era pratico del luogo, ma si capisce quando ci si trova stretti fra quattro versanti, anche se d' attorno la nebbia in-golfa ogni cima. Già risalendo in automobile, i tornanti che dal fondovalle toccavano il pianoro della caserma, 2000 metri d' altitudine, aveva avuto la sensazione di essere oppresso dai blocchi di roccia, qualche spezzone lo aveva perfino avvistato dove la nebbia cedeva a una raffica di vento più violenta delle altre: una roccia senza vegetazione, rossastra, tutta spaccata per il lungo da mille crepacci, fessure oscure in un istante nascoste da colate di nebbia silenziosa. Da qualche giorno comunque, dopo una nevicata turbolenta che aveva costretto la truppa a interminabili teorie mediche dentro gli accantonamenti, scomparse le nebbie, le montagne avevano rotto il silenzio con la fila massiccia, bianca, delle cime aguzze. Montagne messe in circolo attorno al cubo della caserma, con i boschi qua e là addirittura intatti, malgrado l' aggressione continua delle valanghe di tanti anni. Eppure segato, il bianco, da strisce oblique dove l' inclinazione del pendio formava i dirupi cosiddetti del diavolo, le sacche dove precipitavano a peso morto i lastroni di ghiaccio. Così, più le riguardava a una a una Cima del Sale, Corno di Vacca, Pizzo Matto -assurdamente cancellato ogni colore non fosse il bianco, perfino il verde delle pinete era un nero diradato contro il bianco misterioso e compatto della neve, Matteo, dimenticata l' urgenza del rapporto e l' impazienza appunto, di là da quella catena montagnosa, del brigadiere, ricordava le vette della sua valle, a meridione, certamente ancora accese con tutti i colori migliori dell' au, i verdi tenui e i gialli prepotenti e certi rossi che sembrano sangue. Le vette della valle: a destra e a sinistra del fiume, di quel che restava del fiume, i ronchi, dapprima dolci, quindi i primi monti con le cascine e l' improvvisa asprezza degli alpi: finalmente, la bellezza indicibile dei picchi, posti da camosci, come anfanava immalinconito suo padre negli ultimi anni di vita. E ricordati, gli diceva, che c' è sempre una montagna, fra tante, dove potrai rifugiarti quando sarai tribolato; contro certe pene della vita, solo la montagna può darti requie. Glielo aveva detto sovente: soggiun-gendo, quasi per scaramanzia, che per loro Zanchi, fino all' estinzione del nome, la montagna sarebbe stata il Colmigno. Matteo - scandito il tempo, sulla parete, dall' orologio elettrico: silenzioso il furiere, chino sui suoi calcoli di dare e avere onde fare quadrare i bilanci della sussistenza: lontani, nei corridoi della caserma, gli andirivieni dei soldati, il cozzo dei moschetti contro l' impiantito, dei chepi contro i muri sbattacchiati con ira - di colpo rifuggiva l' uggia degli ordini/ contrordini, affondava leggero nella trasparenza di un' alba purtroppo lontana d' aprile, già tiepida l' aria nella valle, le pasture di Rialta deserte, i pini nani, l' erba corrosa dai geli, le toppe di roccia liscia, il cielo. La prima salita sul Colmigno. Quella che avrebbe fatto di lui uno Zanchi vero, come il padre, come il Matteo vecchio e, più indietro, tutti gli Zanchi, Matteo e no, che aveva visto regi-strati sui fogli ingialliti della canonica. L' usanza.

Dopo l' inverno, il primo piede a calcare il Colmigno, da secoli, doveva essere il piede di uno Zanchi. Il Colmigno, in primavera, era la migliore cima per mettere alla prova i garretti e il fiato di uno Zanchi: la vetta che riluceva per prima nei mattini silenziosi, l' ultima a smorire nell' oscurità delle sere. Durante la giornata, era il picco che segnava il tempo. I vecchi della valle, guardandone la sommità dalla forma di roncola, capivano se l' indomani sarebbe stato giorno di vento o meno. E dal vento dipendevano pioggia e sole. Così contro montagna, il tempo cambiando l' umore nel giro di pochissime ore come una donna che non abbia conosciuto ancora l' amore, ogni lavoro nei poderi restava sospeso a seconda della lucentezza del Colmigno. Appena sopra il paese, in zona Taraltoso, cominciava il bosco, una fascia di abeti e pini e larici che s' era salvata, dio-sacome, dai dissennati disboscamenti che, sul finire del secolo passato, avevano massacrato mezze le vallate. Il bosco era fitto come pochi: nessuno, purtroppo, curandosi oramai di pulirne gli intrichi. Per questo, nessuno del paese ardiva attraversarlo. D' altronde, il sentiero verso gli alpi inerpicandosi dove la costa era più dolce, sulla sinistra del bosco, ciascuno evitava il brusco dislivello, girava largo sopra i monti di Vaudo, toccava Fiessi e tornava sopra Taraltoso, in zona quasi piana, dove la Valletta laterale del Borro tirava diritta alla Sella del Mulo, l' ampia conca che un tempo era stata l' alpe prediletto dei paesani, affittato in comune, perché aveva un' erba che meglio era difficile trovarne.

Per toccare il Colmigno, uno doveva avere gambe che fossero gambe: e il torace doveva essere una fisarmonica capace di succhiare tanta aria quant' era possibile succhiarne a quell' altezza. Lassù non si poteva barare, nemmeno le bestie avevano più la tana tra quei sassi. Le marmotte, che pure sono bestie che scherzano solitàrie anche dove l' erba è una miseria, avevano rinunciato a giocare sul Colmigno. E i camosci, le gazze, gli aspidi. Solo rocce, lassù: lisciate dai venti e dai geli, disseccate e spaccate dal calore estivo, scavate dalle piogge che, in valle, quando cominciano di maggio, sono diluvi che trascinano sassi e terra e tronchi verso il fiume, un salto dopo l' altro tra rupi e greto, tra brughiere e pozze torbide, dovè nemmeno più si arrischiano le trote. Sassi e terra e rami ed erba e bestie, selvatiche o meno: e pezzi di cascine: perfino gente, come successe nel 1924, quando la buzza ruppe gli argini, intasando i coltivi, sfondando case, trascinando nel mulinello tutto quanto c' era da trascinare.

Matteo, fin dalla prima volta, che pure non conosceva la scorciatoia, fidandosi unicamente delle indicazioni di suo padre, aveva saputo guardarsi in giro come deve guardarsi in giro uno che vada in montagna. I tronchi erano piante dal nome esatto: e le rocce pure, ogni balza ogni costone, a seconda dell' inclinazione degli strati. In casa sua, certe conoscenze si bevevano con il latte, ascoltando il padre quando raccontava di piante e di pietre e di bestie. Non c' era specie d' al che gli fosse sconosciuta: o riflesso di sasso, a cui non sapesse dare il nome che da sempre in valle danno a quel sasso. Così perle bestie selvatiche, per i fiori e l' erba, che aveva imparato dall' o, sfregandola pazientemente tra pollice e indice, ogni stelo il suo profumo. Uno che sia nato tra le montagne, e tu hai visto la luce proprio su a Fiessi -gli diceva il padre- conosce la vita meglio di chi la studi per anni sui libri. Era una frase che sapeva meglio del catechismo. Matteo si sentiva un altro uomo, quando poteva dire la sua opinione sulle montagne. Ancora la.sera precedente, nello stanzone al terzo piano della caserma, non erano stati pochi a rimanere di palta, appena lui aveva creduto d' intervenire in una parlata sui Cri- stalli d' alta quota. Ne aveva parlato con la serena fede che hanno solo certi preti anziani, se gli tocca predicare sulla verginità di Maria.

Quella primavera, era partito da casa con l' o. Le vacche muggivano nelle stalle ed era stato l' unico segno di vita in tutto il paese. Aveva seguito i ronchi fino al bivio detto della Samari- tana. Era una domenica. I paesani, prima di una cert' ora, si concedevano qualche lusso, si rade-vano la barba della settimana, si lavavano meglio le ascelle, sceglievano perfino la cravatta ( ricevuta, da giurarlo, dai cugini d' America, con una frase inglese stampata di traverso, o le note di qualche song imparato mungendo mucche americane, non tanto dissimili, come scrivevano nelle poche lettere, da quelle di valle, stesso mugghio disperato, stesso latte ). E le scarpe, sceglievano i paesani: quelle buone, con le suole che scricchio-lavano per il poco uso - qualche battesimo, se cadeva d' inverno, tempo d' inattività per chi sta sulla terra dodici ore filate: un funerale o le nozze di un parente parente. Alle funzioni, le scarpe buone erano un obbligo, per gli uomini, a cui non potevano rinunciare, le donne guardando, tra una litania e l' altra, anche le scarpe, nei loro banchi separati per antiquato ritegno, quasi per conoscere, dalla loro tenuta, le belle maniere di chi le calzava.

Era una domenica luminosa, nemmeno una bava di foschia su tutta la valle, ogni montagna pareva disegnata e a portata di mano. Matteo, svoltata la carraia tra gli orti del paese alto, si era trovato contro il bosco più bosco che uno potesse sognarsi. Cortecce coperte di muffa e funghi -grosse lingue di bue che, fresche, sarebbero state, impanate e rigirate nel burro, una mangiata meglio delle costine ai tempi della mazza. Ma era stato un inverno da segnare sui calendari di casa per ricordarsi, da vecchi, i geloni ai piedi e le crepe nella pelle delle mani e l' angina, che neppure con la grappa e i decotti bollenti si era data per arresa, un male cane solo a mandare giù la saliva, figurarsi a dire quattro parole in croce. E la muffa e i funghi erano come carta vetrata sui tronchi.

Matteo aveva attraversato la prima boscaglia, stroncando i rami con la roncola, una sfaticata senza senso, aveva pensato sul principio, sul punto di tornare in paese per riferire al padre che una usanza come quella era meglio metterci una pioda sopra e lasciarla perdere. Ma poi aveva capito come valesse la pena faticare a colpi di roncola. Infatti, superata l' erta, si era trovato sullo sperone a strapiombo sulla vallata, un colpo d' occhio che gli aveva dato coscienza della piccolezza l' uomo. Il Colmigno era un blocco spoglio: altissimo: con crepe profonde, riunite in spaccature che si annegavano nel vuoto, dove la luce del giorno ancora non arrivava a sagomare i sassi. E sopra di lui, spuntoni taglienti, ripide gobbe, improvvisi pinnacoli, che davano la vertigine solo a squadrarli contro la lucentezza del cielo. Una montagna d' averne sgomento: che però sembrava chiamarlo con il silenzio addirittura assordante: vicina e irraggiungibile: la punta estrema come l' avevano giustamente chiamata i vecchi, una lama di roncola che tagliava i venti. Perplesso e intronato, Matteo aveva stentato a muoversi, la voglia era di lasciarsi cadere lungo e disteso come dicevano si fosse lasciato andare il Selmo, sull' Ai, quand' era tornato dall' America e gli avevano detto di sua sorella, la Zena, che venivano dalla città per adagiarla sull' erba dei prati e sfo-gare l' istinto. Non sapeva capacitarsi che gli Zanchi suoi di famiglia avessero saputo affrontare quella lingua di sasso nudo, senza rompersi l' osso del collo. Eppure, saliti erano saliti, aveva visto suo padre, due tre anni prima, un punto vivo contro il sereno. Col binoccolo ne aveva seguito i gesti, le braccia ogni tanto agitate per scacciare i crampi dai muscoli: e lasciate, quindi, lungamente in croce per sentire il sangue rifluire alle dita; mentre la madre pregava senza averne l' aria, perché ci sono preghiere che non sono parole, soltanto un affanno che fa battere il cuore più rapido del normale.

Aveva perfino imprecato, insultando l' attacca dei suoi per quella montagna. Con tutte le montagne che facevano corona alla valle, Cro- gliessi e Monterotto e Larenzo, e le altre di cui aveva sentito parlare a scuola, proprio sul Colmigno dovevano incaponirsi. Questo pensava. E altro. Un sentiero, macché, un filo di sporgenze, sulle quali posare gli scarponi, doveva esserci. Gli occhi li aveva e stupido non era stupido. Se gli altri Zanchi si erano issati sulla vetta, un appiglio da qualche parte doveva trovarlo, cercasse: e dopo quell' appiglio, un altro e un altro ancora più su, a costo di afferralrsi a ogni minimo sasso. Graffiarle, le rocce: unghionarle come fanno i ghiri sulle cor-tecce, quando devono vincere ihdestino avverso. Era stata un' arrampicata insidiosa fino all' ultimo passo, un anfanare disperato, gli occhi sempre in alto, inchiodati al limite della montagna; il pensiero fisso ai suoi di casa, sicuramente fuori nella corte a implorare tutti i santi ricordati dal libro dei santi. E lui! stesso, che non era di chiesa, si era trovato a sacramentare le preghiere imparate quando lo obbligavano a servire messa per Don Nerci, vecchio e offeso dalla balbuzie, che nemmeno sillabava gli oremus ma li affastellava in un lungo rauco mormorio. Uno sforzo dietro l' altro; e infine, stravaccato sul lastrone della vetta, pochi metri quadri ^li granito, con l' acqua salata in bocca e il corpo intero che tremava come i garroni dei cavalli quando tirano carrate di letame. Aveva inciso, vicino alle altre date, la sua data, giorno e anno. Poi, la schiena sul sasso, la faccia verso l' azzurro senza fine, si era reso conto della miseria di certi litigi, giù in paese, per una par-cella malamente irrigata, per una capra andata a seminare roba sua dove la roba era degli altri. Aveva compreso, in quel silenzio non più di questa terra, come ciascun uomo debba sopportare le malevolenze degli altri uomini. Identica sorte di quella montagna, e di tutte le montagne che scorgeva intorno, che erano tante e alte e lucide nel mattino, impiantate a governare, da secoli, le stizze del tempo, nuvole, vento acqua, neve. E la sferza del sole, impietosa, se a quell' altezza non c' è velo di nebbia e l' ombra di un aereo, che voli alto, pare schiacciare, precisa, l' intera vallata.

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