D'agosto, al Dammastock
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D'agosto, al Dammastock

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9Di Mario Ferrazzlni

( Locamo ) Partimmo alle quattro di mattina, quando verso l' oriente il cielo cominciava a prendere quel colore grigio perla, che solo più tardi sfuma lentamente neu' azzurro chiaro delle belle giornate.

Il sentiero dalla Dammahütte saltella tra cataste di blocchi, va un po' su e un po' giù, ogni tanto un blocco maleducato ci costringe a stanare una mano dalla tasca tiepida per fermarla sul gelo ruvido della pietra ad aiutarci. Le clavicole, dopo i vagabondaggi dei giorni passati, protestano un poco alla trazione del sacco: abbiamo dovuto rifare le provviste alla Gòscheneralp, povere provviste di fronte alla succulenza che quattro Svizzeri tedeschi hanno sfoderato ieri sera alla capanna: ravioli al sugo, scatole di carne con variopinte etichette americane, eccetera; noi, avevamo il solito latte condensato, e micchettoni di pane, e pezzoni di formaggio, così alla buona diavola... Il respiro si fa un poco grosso, si sente però che è allenato, sta solo scaldando il motore; dopo mezz' ora il biancore di alcuni nevai ci attira, la salita diviene più elastica, si può guardarci intorno senza pericolo che il piede faccia dei bruschi incontri. La giornata non è bella come si prevedeva: banchi alti di nebbia volano leggeri, a lunghi fusi paralleli, sfiorando le cime della catena del Dammastock, il sole stenta a farsi strada tra spessi nebbioni, che pur-tuttavia accennano a una trasparenza dorata di pulviscolo. Il ghiacciaio sembra in attesa, così come i solitali uccellini che squittiscono dagli spuntoni diroccati. La roccia ali' inizio del ghiacciaio si fa levigata, il segno del tempo, che in montagna è il segno del ghiaccio, parla da quei lisci sassoni che fa quasi piacere guardare, cosi puliti e bonaccioni, come quei ragazzoni di paese dal corpo d' uomo e gli occhi ancora da bambino.

Noi, gente incivile, li seminiamo di carta di cioccolatta e di formaggio, poi ci addentriamo col cuore leggero ed un po' di soggezione tra i primi crepacci: perché i primi minuti su un ghiacciaio, anche ai più sperimentati, danno una sensazione speciale: è come cambiare vita, le scarpe mormorano sommesse, non brontolano più col pietrame, la corda è forse l' unica che pare a casa sua, si dimena e fa le gobbe come un dromedario, ha l' argento vivo addosso, per un po' ci si fa caso, poi il paesaggio che si allarga pare riempire tutto; i piedi vanno automaticamente nelle peste dei compagni precedenti, il respiro soffia un po ', poi quasi di colpo la neve brilla di mille cristallini un rosa stupendo scivola come una carezza verso valle voli di allodole sperdute; chioccolii di gocce vengono da un dirupo di ghiaccio che bisogna aggirare per giungere al crepaccio terminale; dopo un poco siamo fermi per levare la giacca, dopo un altro poco per levare il maglione, i calzoni cominciano ad aderire alle gambe come ., cartasciuga. Ma si comincia ad affondare: ce ne rendiamo conto man mano che avanziamo; prima sono dieci metri di neve molle, poi sono venti, poi si è quasi continuamente con le gambe infarinate; la cosa non ci piace; mio padre ha fatto il Dammastock molti anni fa con suo fratello, ed i pareri sulla parete che ci attende sono discordi: secondo Die Alpen - 1951 - Les Alpe13 mio padre in molti punti si sale con le mani in tasca, secondo mio zio quattro mani sono appena sufficienti... Io quattro mani non le ho, quindi sono giustamente un poco annoiato del ritardo; il quale si fa sempre più forte, specie quando l' ultimo tratto diviene più ripido per andare ad approdare alle prime rocce: sono le dieci. Prendiamo il crepaccio ultimo più a sinistra possibile, anzi ci dirigiamo là dove una stria bianca più marcata indica il proseguimento della fessura, coperta. La piccozza dice poco, la neve è molto molle e l' arnese scende come nel burro; dice molto di più la mia gamba, che di colpo sparisce in basso, seguita con amore dall' altra: il sacco però frena bene, e mio padre ha la corda tesa; le gambe muovono nel vuoto, mentre tintinnii di cristalli si perdono quindici metri sotto.

La cosa non è piacevole, anche se ha degli aspetti poetici. Nuotando ventre a terra nella neve, sorpasso il punto, poi mi affranco, e mio padre passa senza incidenti, un poco più a sinistra.

Siamo sulle roccie. Non sono difficili, bisogna porre occhio alle pietre instabili, e scegliere bene la via; qualche cristallo mi tenta, sporgendo da alcune roccie molto accidentate ed irregolari; ma il tempo stringe, bisogna attraversare il canalone, e poi salire sulla parete. Ma il canalone ci è ostile: largo tre metri, di ghiaccio che i sassi che continuamente cadono dall' alto hanno levigato come una vasca da bagno, con due sponde liscie che ci danno a pen-sare.Vado avanti io.

Scendo con precauzione la sponda: le vibram trovano a stento appoggio, il ghiaccio non è il loro pane; guardo in alto, nel timore di vedere qualcosa scendere ali' improvviso, ma non arrivano... messaggi.

Scalino un poco, poi c' è un sasso che affiora, finalmente la piccozza pare tenere solidamente il bordo opposto; butto su una gamba, spingo con l' altra. Maledizione I il piede sinistro parte via di colpo, la piccozza molla anche lei, casco. Non è piacevole neppure questo, parola! La velocità si fa impressionante, prima scivolo sul ventre, poi vengo violentemente ribaltato, le dita mordono a sangue nel ghiaccio, ma non c' è niente da fare, volo tra ventagli di ghiaccio, finché un violento strappo alla vita e un non meno violento urto nelle parti posteriori mi bloccano; la corda era bene affrancata. Ma poiché andavamo orizzontalmente, i miei quindici metri di canalone devo averli fatti. Ansimo.

La piccozza? È dieci metri ancora più in giù, dalla opposta parte del canalone. Non ho voglia di risalire fino in cima: un piccolo massaggio alle suddette parti posteriori, dove i pantaloni sono qualcosa come un ricordo: poi ritento. Passo. Poi passa mio padre. Adesso, è ben noioso, invece di salire, scendere a ripescare la piccozza, ma con la corda ben tesa il morale è più alto.

La discussa parete ci sta di fronte. Non è un gran che, pensiamo. Dopo dieci minuti cominciamo ad accorgerci che gli appigli sono numerosi, ma rivolti tutti maladettamente in basso: dopo mezz' ora siamo presso che fermi, cominciamo a guardarci attorno, poi a guardarci in faccia, per vedere ciascuno di indovinare che cosa l' altro pensi: io comincio a pensare che mio zio avesse ragione. Sono le due, tornare non si può.

Vado avanti io, più leggero. Gli appigli sono veramente scarsi; qualcuno che ci ha preceduto ha pensato bene di piantare un chiodo con la cordicella.

Noi non ne abbiamo. Si continua così; spesso si aderisce col corpo alla roccia e ogni dito fruga affannosamente fin dove il braccio arriva; tre, quattro volte ho pensato: ora casco, se non trovo qualcosa vado. Poi... non sono cascato 10 stesso. Gli spuntoni per affrancare la corda sono diventati rarissimi: saliamo in una specie di V, sul fondo della quale la roccia è meno liscia e un poco più sfaldata.

Ma il tempo passa, e avanziamo come lumache, uno per volta; mio padre è stanco, ansima, temo molto perché gli spuntoni a cui la corda è fissata sono spesso ridicoli, e se egli dovesse scivolare, col suo peso, non ter-rebbero. C' è qualche momento tragico. E il tempo passa, sono le quattro, poi sono le cinque. Ad un certo punto qualcosa vola per aria, dieci metri sotto di me: picchia, rimbalza e scende a picco: addio Leica; era alla cintura di mio padre, forse si è rotto il cinturino; ad andarla a ripescare, beninteso, non ci pensiamo neppure per scherzo. Vorremmo essere fuori da questo inferno liscio di roccia, poi basta. Si comincia a sentire la cima, però, o meglio la cresta, che la cima è più a sinistra; le roccie sono più agevoli, la vista si allarga. Alle cinque e mezza siamo su: sette ore circa per duecento metri di roba. Mio zio aveva ragione, perbacco!

Annebbia e fa freddo; a mezzodì non abbiamo mangiato ma ora non abbiamo molta fame; il sole sta scendendo, tra nebbioni cangianti; siamo stanchi e un po' demoralizzati per le difficoltà inaspettate; la salita ci è parsa peggiore del « mittelschwer » a cui accenna la guida; molto peggiore. Sapremo poi, più tardi, che è considerata una delle più brutte della Svizzera centrale. Ora che è andata, è andata...

Bisogna pensare alla discesa. Costeggiando la cresta raggiungiamo la cima. La vista è scarsa: i nembi di nebbia velano continuamente anche il ghiacciaio: la nostra intenzione era dapprima di raggiungere la Grimsel, ma visto come la cosa si è messa, ci basta giungere alla Furka prima che il sole ci abbandoni sul ghiacciaio del Rodano.

Purtroppo la nebbia continua, anche più in basso. Seguiamo delle peste trovate sotto la cima, e non ci azzardiamo a lasciarle, per quanto ci sembri che dirigano un po' troppo a sinistra: la neve è molto molle, e traditrice. Mio padre è a sua volta sotto la neve fino alle ascelle; grida: tieniIo tiro, pianto piccozza e piedi, buttato tutto ali' indietro. Sentiamo che una disattenzione o un colpo di sfortuna potrebbero costarci cari. Passa mezz' ora, e mio padre va ancora sotto fino alla vita: è un gioco pericoloso; le leggere depressioni che in genere segnano i crepacci non ci sono, quando ci sono non indicano niente, quando non vedi niente, improvvisamente vai sotto. Anche i leggeri cambiamenti di colore della neve non ci dicono nulla; seguiamo le peste degli altri, e dove gli altri non affondarono noi penzoliamo con le gambe nel vuoto. Dobbiamo andare con la massima prudenza. Sono le sette; poi sono le otto, e il sole si tuffa dietro cime più o meno intravviste: perché adesso la nebbia ci è un poco più amica, ogni tanto si squarcia per lasciarci vedere il piano del ghiacciaio, che non è più molto lontano. Prima però bisogna che il papa faccia 11 giochetto ormai conosciuto ancora una volta. Poi vado un po' sotto io, proprio dove sembrava che ci si potesse slegare, tanto tutto era liscio e bello.

Alle nove la neve cessa, e siamo su quello sporco ghiaccio, rugato da centinaia di crepaccetti e crepaccioni, in cui l' acqua gorgoglia perennemente. Passiamo frettolosi, e la sentiamo cantare, con suono diverso a seconda della profondità e dell' ampiezza delle crepe, giù, sotto le nostre gambe. Fa buio. Il paesaggio si fa caotico, i crepacci diventano enormi bocche scure, un enorme sommesso brontolio parte da centinaia di cascatelle profonde, le nostre scarpe sono solo una voce piccola piccola: hanno ricominciato a brontolare, che la terra e la ghiaia si sono accumulate sul ghiaccio. Ma non ci si vede più. Nel cielo brillano le stelle. Dove è questa Furka?

Andare tra i crepacci diviene pericoloso, se un piede scivola appena... Prendiamo a sinistra, troviamo le rocce: qui finalmente la fortuna ci arride; ed era ora. Tra un pietrame d' inferno, come non lo sappiamo, ma non certo per merito della lampadina tascabile, troviamo un sentiero. Sale, scende e si snoda tra massi oscuri che ci sovrastano, poi si allarga e punta direttamente a valle: i lumi della Furka ci vengono incontro. AH' albergo ci guardano un poco di sghembo, certo non siamo eleganti, la corda sporca di terra e rigida di gelo è un groviglio inestricabile, ma se ne hanno voglia la possono sbrogliare loro, noi ce ne guardiamo bene.

Nel letto, consumiamo il cognac che ci è rimasto. Acqua, cognac e zucchero: buono.. Però quella dannata parete! Qualcosa in me protesta; ma forse è solo il mio povero sedere. Parola mia, non ha tutti i torti...

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