Una vallata leggendaria.
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Una vallata leggendaria.

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Avevo letto, non so dove, che gli abitanti delle alte valli italiane a sud del Monte Rosa, conservano tuttora la tradizione, largamente diffusa, di una vallata incantevole — erinnicamente verde e di una bellezza di sogno — che esisteva una volta nel cuore del monte e che ora è sparita. La leggenda è stata raccolta anche da un sapiente ed autorevole geologo inglese, Sir John Lubbock, autore di un pregevolissimo libro sulle bellezze della Svizzera. Lubbock è dell' opinione che la vista della Valle di Zermatt dalle estreme vette del Monte Rosa, la quale fa ricorrere col pensiero alla poetica similitudine di una massa di smeraldo e di malachite chiusa in una sterminata ganga di diamante, abbia dato origine all' idea della « valle perduta », e che la misteriosa, trascendentale regione, inviolata e inafferrabile come una visione di Fata Morgana, sia precisamente la vallata che si stende da Visp ( Visp, secondo la grafia tedesca; Viège secondo quella francese ) a Zermatt, conclusa nella scintillante cintura dei più splendidi ghiacciai della Svizzera e forse dell' Europa. Cintura borchiata dalle vette del Mischabel, del Dom, del Täschhorn, dell' Alphubel, del Rimpfischhorn, del Rosa, dello Zwillinge, del Breithorn, del Matterhorn, del Dent Blanche et del Weisshorn.

Questo nimbo di mistero e di leggenda che ha aleggiato, fin da' tempi antichi, sulla Valle della Visp, è stato sufficiente per farmi accarezzare insistentemente il progetto di recarmi alla scoperta della valle « bellissima e perduta » della leggenda valdostana. Altre considerazioni d' ordine turistico, igienico, estetico e pratico, hanno gradatamente rafforzato l' idea germogliata dalla lettura di quel suggestivo particolare folkloristico.

L' apertura della Centovallina ed il raccordo diretto ed abbreviato col Vallese hanno reso possibili persino le infedeltà alle nostre miti Prealpi, verdi pascoli e dolci di acque, dagli orizzonti limpidi, ma limitati e conclusi. Quando si premette che con sette ore di ferrovia noi Locarnesi possiamo raggiungere Zermatt nel cuore delle Alpi Vallesane, e che, con altre tre ore di comoda ascensione attraverso i boscosi pendu del Galen e dello Zmutt, noi possiamo portarci al primo pianerottolo del Cervino, a 2600 metri, a riverire il gigante solitario, che, a detta universale, è la più bella e più perfetta piramide alpina, tipo ideale del monte — come lo ha definito il Ruskin — tanto la sua forma ha grandezza ed armonia, tanto le sue linee hanno nervo, forza, potenza, spinta talora all' estremo, pur conservando elasticità nello slancio, grazia e delicatezza veramente nobili; oppure elevarci, da Zermatt, con l' ardita ferrovia del Gornergrat, sino all' estrema vetta di questo monte, che costituisce il più meraviglioso osservatorio su una impressionante ed incomparabile distesa di ghiacciai e su una foresta di picchi fra i 3500 ed i 4600 metri, noi avremo detto tutto. Fu così che, tentato della leggenda, dalla praticità e dalla convenienza il più ciabattone ( sia detto senza false modestie ) fra gli alpinisti locarnesi, che in vita sua era salito una sola e peregrina volta a Brè, ed una volta al Generoso ( per la verità storica, con la ferrovia ), si è indotto ad effettuare, « pedibus calcantibus », l' intiero percorso della Valle di Zermatt, raggiungere il passo di San Teodulo e discendere, per Breuil, tutta la Valle Tournanche: una bazzecola di 80 chilometri, con un itinerario compreso fra Visp, nella Valle del Rodano, e Châtillon, nella Valle d' Aosta: punto di partenza a 650 metri, stazione terminale a 549 metri; altitudine massima da rag-giungersi 3332 metri, il tutto servito col corroborante contorno di quattro o cinque chilometri di ghiacciaio garantito di prima qualità, se non di primo assaggio.

Risparmierò le note di viaggio e mi limiterò a qualche impressione sintetica. Se a qualche lettore saltasse l' uzzolo di seguire il mio esempio, compri il Baedekers, che nella sua laconica aridità potrà risultare molto più divertente ed istruttivo. La Valle della Visp può veramente definirsi, senza tema d' iperbolismi, una vallata incantevole. Avevano centomila ragioni gli antichi valdostani — i Salassi — fratelli agli orsi, ai lupi ed alle aquile, che forse la concupirono attraverso i prismi cristallini del Nordend, della Dufourspitze, e del Liskamm. Si può ammirarla sino all' ebbrezza, sino allo stordimento, senza stancarsi, ritrovando anzi, sempre nuovi incentivi all' ammirazione più entusiastica e più incondizionata. Tutta la valle, da cima a fondo, risuona ed echeggia dei clamori della Visp, livida e spumante, strozzata fra le gole e gli anfratti, che svolge una serie ininterrotta di balzi leonini da Zermatt a Stalden, spostando, a vista dello spettatore, con la sua furia e la sua forza incoercibili, blocchi e macigni del peso di parecchie tonnellate.

Tutta l' azzurra tenerezza del cielo d' agosto sembrava in quel giorno stillare sulla valle bellissima. E sulla strada che si arrampicava, a tratti snella o tortuosa, con dei rettilinei e con dei giri d' elica, per ridiscendere bruscamente a ritrovare la Visp sempre più indemoniata e sempre più assordante, svolavano i caratteristici profumi dei muschi e dei funghi nascosti, dei primi fiori alpestri e degli estremi roveri. Negli irregolari e capricciosi appezzamenti di terreno, abbarbicati ai fianchi granitici della montagna, sulle viti nane esposte all' intiero giro del sol d' agosto, maturava il biondo Fendant. Più oltre, verso la media valle, verso S. Niklaus, la sinfonia dei pini attaccava il dominante tema ligneo. Foreste, foreste e foreste di conifere, su su fino ai biancicori delle vette estreme: catapulte convesse d' aghi di smeraldo che, trattenute sul velluto degli abissi, sembravano slanciarsi ai brividi degli uragani, ad arrostrare i cirri vaganti.

Chi ha sentito pesare quei trentacinque chilometri di strada deliziosa? Io no. E non faccio per vantarmi, ma in tempi normali, con una passeggiata da Locarno alla Navegna e ritorno, io esaurivo coscienziosamente tutto il serbatoio della mia potenzialità escursionistica. A salire, poi, sino a Mergoscia, c' era da far suonare le campane sulle mie attitudini di « grimpeur ». Forse il fascino del nuovo, del vario, dell' inatteso, del mutevole? Forse gli effluvii aromali acro-resinosi, che giungevano sull' ala del vento commisti a buffate di odor di neve e di ghiaccio cento volte millenari? Eccitamento fisico o suggestione dello spirito? Certo l' aria che scende da Zermatt è per l' organismo un filtro di straordinaria potenza corroborante, mentre la visione della valle, continuamente modificantesi in nuovi impreveduti aspetti, mantiene lo spirito in condizione di particolare tensione, sostituendo egregia-mente il ricambio dinamico. E la strada si svolgeva fra pianori e declivi, si insinuava sotto le abetaie, scendeva a civettare col torrente sempre più scatenato, scantonava furbescamente le cascate, risaliva a scherzare con le tipiche « baite » e con i caratteristici « cottages » vallesani, che conservano qui un fascino di originalità e di poesia, così limpide e così primitive, quali non si riscontrano più altrove, dove l' ornamentazione troppo elaborata e dege-nerata in manierismo ha soppraffatto quei requisiti di semplicità e di modestia che si convengono all' abituro di montagna.

Le « baite » ed i « cottages » di quest' angolo della Svizzera armonizzano perfettamente ed idealmente sintonizzano col paesaggio, conferendogli, con le loro sagome e con le loro tinte, una nota ambientale saliente e deliziosissima.

Kalpetran, S. Niklaus, Randa: pittoreschi e singolarissimi paesini, giochetti di casette variopinte tuffati fra i mille fiori alpestri, fra il respiro dell' abetame e fra i pascoli digradanti, popolati di mandre erranti come bruchi sul verde prasino.

Nei paraggi di Randa il ghiacciaio comincia a specchiarsi nelle nostre pupille stanche per la eccessiva dilatazione, ma non già di ammirare. Sono i ghiacciai del Weisshorn che si stendono a perdita d' occhio, accavallandosi verso le vette estreme; è un succedersi di guglie, di picchi e di cuspidi scintillanti; una sfilata di bastiglie iridescenti; una fantastica e formidabile architettura polare, rigata qua e là dai rilievi delle morene, che si incendia di barbagli corruscanti sotto i raggi del sole morente. Sono i ghiacciai del Dom e del Alphubel i cui caratteristici seraccameHti strapiombano a cascate, a cateratte verso la valle; argini ciclopici e favolosi d' argento, di zaffiro, di corindone e d' ametista, che sembrano preludiare, con i loro vivaci riflessi, in questo vespero del primo agosto, ai fuochi di gioia che si accenderanno più tardi sui fianchi di tutte le montagne.

Il Weisshorn e il Dom del Mischabel, che strapiombano quasi sopra il villaggio di Randa, devono essere le due accigliate e minacciose divinità del posto. I due colossi, uno di rimpetto all' altro, ai due lati della valle, sembrano guardarsi in cagnesco come due mastini ringhiosi in procinto di dispu-tarsi un osso: e l' osso sarebbe in questo caso il villaggio di Randa, che è stato provato ed oppresso reiterate volte da terribili valanghe, frane e scoscendimenti giuntegli dalle due orride e magnifiche montagne, che, dall' alto dei loro 4504 e 4512 metri rispettivamente, ostentano la tragica e sublime magnificenza dei loro ghiacciai, la loro possente ossatura e la loro formidabile conformazione. Randa ha cercato di propiziarsi i due mostri di granito e di ghiaccio dedicando ed intitolando al loro nome i due migliori alberghi del paese: va da sè che le vittime espiatorie offerte in olocausto sono i clienti di passaggio. Il Weisshorn e il Dom sono diventati così gli Dei Pateci della regione, e come gli antichi idoli punici sono adorati, temuti e vilipesi. Da Randa si dispartono tutte le comitive alpinistiche che tentano la scalata dei due giganti e dei vicini minori confratelli. Poche montagne si svelano in modo così immediato ed a primo acchito. E nel modo più ampio, più perfetto e più completo. Sono due montagne senza... falsi pudori, senza paraventi di contrafforti, di alpi e di controbastioni. La spinta dei loro ghiacciai scende quasi sino al paese, come una colata linguiforme di lava opalina, preceduta da enormi ammassi franati di detriti pietrosi, imponenti ghiaioni di forma conica e piramidale. Sono questi i depositi e fluvio-glaciali che, ai limiti inferiori dei ghiacciai, danno luogo alle morene terminali.

Da Randa a Zermatt corrono dieci chilometri. A mezza strada il paesello di Täsch si crogiola e rabbrividisce voluttuosamente ai piedi del Täschhorn. All' ultimo svolto della strada, Zermatt appare nella sua civettuola veste policromica, addossata alla montagna verde, sui fianchi della quale si stendono come biondi arazzi i campi di segale. Zermatt sorge in una conca deliziosa delimitata dalle pendici del Gornergrat, del Rothorn, del Rimpfischhorn, del Gabelhorn, del Trifthorn, del Dent Blanche e dalle estreme propaggini del Cervino, dominata, a destra, dalla vertiginosa piramide che sembra pencolarle addosso, in prodigio di statistica e di equilibrio! Per chi viene dalla bassa valle il Cervino si ostina a mantenersi celato sino all' ultimo tratto: soltanto la nera zanna del piccolo Cervino ed i poderosi contorni nevosi del Breithorn chiudono l' orizzonte, segando il cobalto del cielo. Ma, allo svolto terminale, il Cervino appare in tutto il suo insuperabile ed indescrivibile splendore, in tutta la sua aerea bellezza, in tutta la sua leggendaria mole, estollendosi, superbamente e fantasticamente ardito, al di sopra delle bastionate granitiche del Gornergrat, del Leichenbretter, del Galen e dello Zmutt, come un obelisco ciclopico sormontante la favolosa muraglia di un Valhalla, come il simbolo terrificante di un Dio della montagna raccolto nella forgia-tura di fulmini, di tuoni e di uragani.

Zermatt era in origine un rustico villaggio, non più grande di S. Niklaus e di Randa, un pittoresco ammasso di « baite » in legno confinate oltre la riviera della Trift. Il Cervino ha messo di moda Zermatt: nello spazio di cinquant' anni una nuova Zermatt di sassi, di mattoni, di ardesie e di cemento armato è sorta al di quà dello spumeggiante torrente tributario della Visp che scende dal Trifthorn, dal quale prende il nome.

Questa injezione ipodermica di modernità non ha nociuto per nulla alla Zermatt primitiva, che non presenta quell' ibrida mescolanza di rustico e di civile, di agreste e di urbano, di nuovo e di vecchio che si riscontra nella maggior parte delle stazioni alpine congeneri. Più e meglio che una coinesta-zione, noi abbiamo qui un adattamento pacifico di due Zermatt ben demar-cate e chiaramente distinte, in buona convivenza fra loro. Zermatt è congestionata di alberghi, qualcuno elegantissimo e monumentale, di ristoranti, di caffè, di bazars, di negozi, in gran parte empori di articoli di montagna, di uffici turistici, uffici bancari, mostre fotografiche nelle quali si ammira la più vasta e completa iconografia del Cervino, ecc. E tutte le comodità, tutti i comforts: campi di tennis, di golf, di criket; tre chiese, il tempio cattolico, la chiesa anglicana e la chiesa evangelica; Tea-Rooms, dancings, orchestrine, e chi più ne ha più ne metta.

Flusso e riflusso incessanti, in tutte le ore del giorno, di forestieri, villeggianti e turisti. Gruppetti di guide a tutti gli angoli, a tutti i crocicchi. Bei tipi di Vallesani, forti, quadrati, muscolosi, dalla pelle cotta e ricotta dal sole e dai morsi del ghiacciaio, tutti fregiati del distintivo del C.A.S. Drappelli di alpinisti, in perfetto equipaggiamento di alta montagna, armati di picozze, di corde e di ramponi, sciamano per la via centrale del paese e per le viuzze laterali alla ricerca dei sentieri che adducono alle vette ed ai ghiacciai più celebrati. Contrariamente alle altre stazioni alpine invase dallo snobismo, dalla superfetazione e dalla mondanità, che gettano dissonanze sul quadro e sulla cornice, qui si respira un organizzazione alpinistica severa, serrata, razionale ed in grande stile. Qui si sente il vero e trepido culto della montagna, l' afflato della ebbrezza delle altitudini; qui si misura veramente il polso della passione del ghiacciaio, il ritmo più o meno accellerato della frenesia della vertigine e del pericolo. Le stesse figlie di Eva sembrano dividere questo ardore generalizzato e diffuso, al quale sacrificano persino lacivetteria femminile. Le signore non girellano per le strade come a Courmayeur ed a Chamonix in « toilettes » chiassose ed in scarpette di raso, di velluto, di tela e di scamoscio.

Tutte, o quasi tutte, ostentano l' abito sportivo di taglio virile, gonne succinte a spacco laterale, scarpe ferrate, chiodate e ramponate, con le doppie calze da neve, in grossa lana, a risvolti. Molte, moltissime, vestono addiritura da uomo: calzoncini maschili, kniker-bokers, giacchette quadrate a baveri, camicie floscie e gilets-golfs, con gli immancabili scarponi corazzati come tor-pediniere d' alto mare. E c' è da credere che ci si trovino bene: ad ogni modo si pavoneggiano come tanti dandy. E questo è il miracolo dei miracoli: « pro-fessionals beauty » con delle forme di silfidi e dei piedini di fata che si com-piacciono di goffi ed antiestetici paludamenti e di scarponi dal peso di due chilogrammi!

Tutti, uomini e donne, forestieri ed indigeni, alpinisti e guide, sempre con il naso e gli occhi all' aria, a scrutare il Cervino. Il Cervino non è soltanto il centro, il punto a fuoco di tutti gli sguardi commossi ed ammirati, ma è l' osservatorio infallibile per il tempo che farà, l' avvisatore, l' oracolo per le gite del pomeriggio e del domani. Manco a farla apposta non se ne azzecca mai una giusta, almeno in questa capricciosa, incostante ed incomprensibile estate. Il tempo cambia rapidamente, quasi repentinamente, da un' ora all' altra, nelle regioni del Cervino, piramide isolata nello spazio fra l' Italia e la Svizzera, esposta al contrasto ed alla lotta delle più violenti forze atmosferiche. Ho visto, in una giornata, la facciata est-sud-est del Cervino inci-priarsi tre volte di neve fresca, e tutte le tre volte ho visto la « bianca dama » dileguarsi e sparire, nel giro di due ore, dal glabro fianco orientale del monte. Punto di conversione e di concentramento di tutti gli sguardi, il Cervino promette ed elargisce ben altro. Da Zermatt sono visibili due sole faccie: quella Nord, fra le creste di Zmutt e dell' Hörnli, appena sfiorata del nascente sole estivo, corazzata di ghiacci, con a' suoi piedi il ghiacciaio omonimo, rotto in grande serracate sugli alti dirupi della sponda destra del ghiacciaio di Zmutt, e la facciata est fra le creste dell' Hörnli e la dentiera di Furggen, strettissima, dal pendio uniforme, tagliata da canali verticali e da cornici quasi orizzontali, intrecciantisi fra loro: ruvida, minacciosa, esposta alle valanghe di sassi, coperta in basso da seraccate che si uniscono al ghiacciaio della Forca.

La varietà di struttura dà al Cervino gli aspetti più diversi e più impen-sati, a seconda del punto da cui lo si contempla. Vista dal Gorner e dal Teodulo è una piramide acutissima. Ammirata dallo Staffelalp, a destra di Zermatt, è uno strano profilo gibboso. Vista dal versante italiano è un obelisco elegante e slanciato che ricorda il Pan di Zucchero di Rio Janeiro. Dal Dent d' Hérens e dai Jumeaux, in Val Tournanche, si presenta come una doppia piramide, perchè vi è incastonato il picco Tyndall, il quale, spettacolo non raro, quando le nebbie velano la testa del Cervino, sembra una piramide a sè stante.

Nessun visitatore di Zermatt può esimersi da una salita al Gornergrat. È questa l' ascensione classica, sacramentale, che lega, fissa e suggella il ricordo imperituro di questa regione di sogno, di poesia e d' incanto. Si sale al Gornergrat in quattro o cinque ore, ma vi si accede anche con una comoda ferrovia elettrica ad ingranaggio, che conduce sino alla vetta in poco più di un' ora, superando un dislivello di quasi 1600 metri. Percorso magnifico, che si inizia sull' erta boscosa a destra di Zermatt, svolgendosi, poi, sotto le fitte abetaie di Winkelmatten e snodandosi fra le pendici boscose del Riffelalp ed i pascoli fioriti del Riffelberg. Superato l' Hotel Riffel, la ferrovia prosegue a « tourniquets » sulla brulla ed arida montagna, fra la roccia nuda e ferrigna, alternata da bianche distese di nevai. Dopo aver costeggiato l' aguzzo e nero corno del Riffel, a' piedi del quale impigrisce il laghetto omonimo, nelle cui acque, durante i tramonti estivi, il Cervino proietta, in iscorcio, come in un terso specchio, la sua snella ed ardita piramide, la ferrovia giunge alla stazione terminale del Gorner-Kulm, a 3136 metri.

Il colpo d' occhio che si gode dalla cima del Gornergrat è veramente impressionante ed indimenticabile. Fin dove l' occhio giunge e spazia, è tutta una maliarda ed irresistibile sinfonia in « bianco maggiore ». Il ghiaccio del Gorner è indubbiamente il più bello d' Europa, il più vasto, il più imponente, il più maestoso.

Esso ha una larghezza media di quattro chilometri, una lunghezza di oltre quindici, ed una profondità che raggiunge in certi punti i 200 metri. Non è facile immaginare la capacità di cubatura del ghiacciaio del Gorner, ma qualche geologo ha fatto il calcolo che la sua riserva di ghiaccio sarebbe sufficiente per fabbricare tre città grandi come Londra. Le considerevoli proporzioni del ghiacciaio del Gorner, che scende, da 3500 metri, col suo ramo estremo, a 1840 metri, sono determinate, soprattutto, dalla vastità dei superiori campi di neve distesi sui fianchi dei colossi alpini che lo circondano e lo delimitano. E impossibile dare con parole umane una idea della bellezza di questi alti campi nevosi. Le dolci morbide curve della superficie, che, o con orli scoscesi precipitano in oscuri abissi, o mollemente s' affondano in leggere depressioni, o fra loro s' incontrano a formare dei rialzi; la facile illusione di movimento nelle forme, con la sensazione di assoluta quiete negli occhi; il bianco candido con una sfumatura accidentale di roseo delicatissimo ( dovuto forse alla presenza di un' alga piccolissima, la Sphaerella Nivalis, e di altri piccoli organismi, piante, infusori e rotiferi ); le tenui ombre delle cavità e i contorni luminosi delle creste compongono una scena che nessun pennello, nessun obiettivo potrebbe efficacemente riprodurre, e che affascina irresistibilmente anche lo spettatore più refrattario alle bellezze della natura.

... Innanzi alla visione della sconfinata ghiaccia, raggiante nel suo manto d' immacolato candore, innanzi a quel concistoro di giganti togati di ermellino e disposti come vassalli attorno al dominatore dalle forme sovrane ed ineffabili — il Cervino —, duecento persone, salite in quel giorno al Gornergrat, lasciavano scivolare, sul quadro avvolto e perfuso di luce quasi siderale, quattrocento pupille pazze dalla gioia della contemplazione. Duecento persone raccolto in un silenzio trepido, commosso, quasi religioso. E tribu-vatano, così, al Gorner, l' unico elogio possibile: quello di ammutolire alla sua presenza.

Siamo saliti al Lago Nero in un divino incomparabile tramonto. Sulla stradella dello Zmutt e del Galen gli adoratori della montagna, reduci dagli alti ghiacciai, si precipitavano a frotte verso la sottostante vallata che cominciava ad infoscarsi. Sopra di noi la cupola celeste assumeva toni ed iridescenze perlacei. I ghiacciai superiori si stemperavano in una tinta di lampone, che accentuava i chiaroscuri ed allungava le ombre dei financhi fortemente plastici del Monte Rosa e del Breithorn. Il Cervino si svettava più bello e più nobile che mai, proiettando l' ombra della sua mole enorme sui pianori antistanti. Sul vertice della Dufourspitze il pianeta Giove scin-tillava come un fuoco di bivacco di alpinisti trionfanti. D' un tratto la luna sorse fra le bianche selle del Monte Rosa, illuminando fantasticamente il meraviglioso scenario. Lunga parentesi di muta, irresistibile ammirazione...

Siamo all' albergo del Lago Nero, a circa 2600 metri d' altezza, proprio sotto la formidabile piramide del Cervino. Il « gigante » è lì, a portata di mano. Par di toccarlo. Di fronte all' albergo alpino, che si affaccia sui ghiacciai di Zmutt, del Cervino e del Gorner, si stacca il sentiero roccioso che s' iner lungo il costone che divide le pareti sud-est e nord: uno degli itinerari che conducono alla vetta. Siamo ravvolti, sopprafatti dall' ombra favolosa del tragico e titanico monolito. La parete sud-est è illuminata dalla luna, che conferisce un sinistro pauroso rilievo ai canaloni, alle cornici e alle aderenze nevose. Soffia il vento.

Dalla nostra tiepida cameretta sentiamo per tutta la notte il vento delle altitudini fare treggenda. Pare una mandra di « mammuths » che, balzata dai ghiacci millenari, si accordi in un solo formidabile barrito. Ma è barrito che ha una gamma irresistibilmente musicale. Il vento, qui, è come l' intonatore dell' organo favoloso di una immensa cattedrale di ghiaccio. Le giogaie, i valloni, i canaloni, gli abissi ed i crepacci sono le canne sonore percorse da questa grave e poderosa nota musicale, che si alterna con le note più acute e più timbrate dei « seraks » di ghiaccio tremendamente scrollati e dei campi nevosi pizzicati e sferzati dalle arcate rabbiose dell' aquilone. Il concerto del vento sul ghiacciaio e sulle vette è degno di essere trascritto da un Beethoven.

Ci godiamo, all' indomani, in un' alba meravigliosa, lo spettacolo del levar del sole, che tinge di una divina porpora le bianchi cuspidi delle montagne antistanti. Visitiamo il delizioso laghetto alpino, che dorme sotto il costone l' Hörnli, fra una superba fiorita di viole di montagna roride di brina notturna.

Ma la nostra meta è il Theodulhorn. Il punto dove ci troviamo ci farebbe consigliare di raggiungerlo attraverso la via più breve, per quanto più faticosa ed impervia, del ghiacciaio della Forca. Si fà o non si fà questo ghiacciaio, così vicino, così seducente e così apparentemente facile? Ma una guida ed un portatore che si accingono ad accompagnare una coppia di alpinisti inglesi attraverso il passo del Breuil ci dissuadono con un par di risolini così canzonatori da tirare gli schiaffi. Ma, ohè, ragazzi fate la burletta? Il ghiacciaio della Forca senza corde, senza piccozze, senza scarponi ferrati, senza guide? Avete scambiato il ghiacciaio per il piano di Magadino?

Siamo alla capanna della Gandegg, un ricovero che costituisce una piacevolissima sorpresa. Servizio di buvette e ristorante, dove le consumazioni non patiscono neppure la logica e naturale maggiorazione per la vicinanza del ghiacciaio. Il vento si accanisce. Sulle vette circostanti danzano vortici di neve. Dal Rosa al Klein-Matterhorn è tutto un turbine di sbuffi e di pennacchi candidissimi. « Le montagne fumano la pipa », come osservano i montanari e le guide con una appropriata similitudine. Sembra, difatti, una gara di fumatori di pipa. Sulla tormenta alpina, che infuria a bel sereno, il geologo della compagnia ci dà una spiegazione abbastanza persuasiva. Il giuoco l' aria fredda e calda dei due versanti, avvolto, uno, quello italiano, ancora nell' ombra, e scaldato l' altro, quello svizzero, da quattro ore di sole, genera di questi cicloni localizzati. L' aria del versante svizzero, scaldata dai raggi solari, levandosi fino alle più alte creste della montagna, è libera di espandersi lateralmente, senza trovare resistenza nell' aria del versante oppostoche, per il freddo della notte, è diventata densa e pesante. L' aria calda e leggera di qui, chiamata a riempire il vuoto lasciato della parte opposta con il notturno condensarsi dell' aria raffreddata, investe e sferza con estrema violenza la neve finissima, quasi pulviscolare, che copre d' un fitto strato le vette, solle-vandola in alto a mulinelli, a spirali e vortici.

Alla Gandegg reclutiamo la guida per la traversata del ghiacciaio che si stende innanzi a noi in tutto il suo abbagliante candore e in tutta la sua maestosa ampiezza. La guida comincia col regalarci ( gratis ) il pronostico che la traversata del ghiacciaio del Theodul, solitamente facile e agievole, sarà, oggi, particolarmente dura e difficile. Infatti la tormenta discende. Il cielo si infosca ed illividisce dietro la linea dei massicci. Le cime circostanti si velano di nebbia, la quale ne smorza e ne cancella i contorni, ne altera le sagome e i profili, livellando le gobbe, le ondulazioni e le depressioni degli alti campi nevosi. Ma i quattro neo-iniziati alla montagna non si sgomen-tano. Una tormenta? Una raffica di neve? Ecco dei singolari incentivi e dei coefficenti del più alto interesse per la traversata di un ghiacciaio, che i quattro alpinisti reputano quasi... ammaestrato. La guida, in vista dei nostri neofitici entusiasmi per i numeri fuori programma, ne approffitta per chiedere un piccolo supplemento di tariffa, che viene accordato all' unanimità. La nostra facile accondiscenza viene subito premiata con la richiesta addi-zionale di una bottiglia da bersi alla capanna italiana del passo del Theodul. Altra approvazione a pieni voti.

La cordata è presto stabilita. La guida in testa ( il nostro « guiderdone » come dice l' amico tedesco della brigatella, il quale, per aver trascorso un mesetto a Fiesole a dipingervi dei bruttissimi quadri si picca di parlar « toscano » ), il rappresentante della Germania in seconda linea, un rappresentante dell' Italia al terzo nodo; quarto e quinto uno Svizzero mando ed un Francese della più beli' acqua. Lasciamo la morena, ormai perfettamente livellata ed aderente ai margini del ghiacciaio che ascende dolcemente verso il profilo rettilineo del colle che sembra custodito ai due lati, da due neri giganti: il piccolo Cervino e il Theodulhorn. La marcia comincia. Sono circa quattro chilometri da superare, con un dislivello di 300 metri. Il ghiacciaio, coperto da un soffice e leggero strato di neve fresca, sotto il morso del vento sembra sventolare come un lenzuolo. Le nubi corrono all' impazzata sul nostro capo, uncinate dal nero dente del piccolo Cervino, pettinate e cardate dalle aguzze scanellature della cresta di Furgglen. Le altre vette sono tutte scomparse sotto il fosco velario del maltempo.

Tratto tratto dei rimbombi secchi e fragorosi ci feriscono l' orecchio e rompono il sepolcrale silenzio del ghiacciaio. Sono cadute di sassi e di sfasciumi di roccie corrose che precipitano nei baratri delle giogaie e degli sbarramenti morenici. Un colpo di vento rapisce il cappello del rappresentante della Francia che cammina in coda alla cordata internazionale. Istintivamente il Francese si butta fuori della fila indiana per riacchiappare il suo copricapo. È un attimo. Due metri fuori della traccia e l' alpinista piomba fino al collo in una buca, un crepaccetto mascherato da un ponticello di neve. La fune si tende in un vigoroso strattone collettivo. La guida, rapida come il fulmine, pianta la piccozza sul ghiaccio, vi attorciglia la corda e si volta. Ci voltiamo anche noi, intuendo il caso. L' amico francese, con due occhi da spiritato e con la bocca quasi imbavagliata dalla neve, strepita come un ossesso, muli-nando le braccia come un telegrafo ottico. Dio ci perdoni: nè San Teodulo, nè qualsiasi altro passo alpino che si rispetti non devono mai aver echeggiato di più coloriti moccoli e di un più nutrito e rabbioso fuoco di fila d' im.

Il gruppetto si sbotta dal ridere innanzi a questo dialoghetto agro-dolce sull' orlo del crepaccio, ma ognuno si rallegra, in cuor suo, della sorte che non l' ha confinato in coda alla cordata. Ancora una volta si appalesa la sublime verità della massima evangelica: « Gli ultimi saranno i primi a cadere nella buca. » Il Francese, con qualche stento, viene issato a bordo del ghiacciaio. Sacramenta ancora, e si scuote la patina di neve farinosa che lo imbianca da capo a piedi. Poi la marcia riprende. Adesso ci troviamo ravvolti da una impetuosa e gelida corrente atmosferica. È il vento d' Italia che spazza il colle di San Teodulo. Ma la capanna italiana, è, ormai, in vista. Il sentiero sbozzato sul ghiacciaio si addossa ai contrafforti del Theodulhorn. La prossimità della roccia morenica nero-ferrigna ci slarga il cuore. Loda il mare, ma tienti a terra E la terra, che cominciamo segretamente a sospirare, è vicina: cento o centocinquanta metri al più. Se la tormenta infierisce per davvero, il terreno solido e statico è lì a portata di mano, e di piede. Ma la pista del ghiacciaio è inesorabile. Guai a deviare! I due lati de sentiero sono seminati di trabocchetti. Per informazioni rivolgersi alla guida, che ce li addita con gesti silenziosi ma eloquenti; per più precisi ragguagli rivolgersi all' ultimo della cordata, che continua a brontolare contro le insidie del ghiacciaio.

La meta è raggiunta. Tocchiamo la scarpata rocciosa del Theodulhorn e ci inerpichiamo sino alla capanna dove un gruppo di operai valdostani adibiti alla costruzione di un nuovo rifugio del Club Alpino Italiano, ed una carovana di alpinisti saliti da Val Tournanche hanno seguito le nostre

Whymper-Gedenktafel eingeweiht am 9. August 1925 zum Gedächtnis an die erste Matterhornbesteigung. Die Bronzetafel in Medaillon-form stammt von Miss Barbara Collingwood und ist in eine Nische auf der Ostseite des Hotels Monte Rosa in Zermatt eingelassen. An der Feier sprach General Bruce im Namen des Alpine Club und der Stifter der Tafel, und Heinrich Dübi gedachte als Vertreter des Schweizer Alpen-Clubs der grossen Tat Whympers und seiner Begleiter.

( Der Druckstock zu obigem Bilde wurde uns von J. P. Farrar, Redaktor des « Alpine Journal », in liebenswürdiger Weise zur Verfügung gestellt. ) glaciali peripezie. Sotto il colle si spalanca la verde conca del Breuil, e nello sfondo si profilano nere e altissime, rigate di ghiacciai, le vette delle Valpelline. Il ghiacciaio del San Teodulo scavalca il passo, slargandosi ed irradiandosi sul versante opposto, dove si confonde col ghiacciaio italiano del Breithorn. Sul colle il vento soffia con estrema violenza. Si ha la precisa fisica sensazione di venire strappati dal suolo ed alzati in aria come festuche... La raffica si sferra in pieno. Per dieci minuti è una caduta fitta ed aggressiva, in senso diagonale, di aculei gelati, così violenta da mozzare il respiro... La paurosa meteora non dura che pochi momenti. Poi un lembo di cielo comincia ad azzurreggiare nell' interstizio fra i due Jumeaux. La nuvolaglia si squarcia. Il sole ricomparisce. Le vette rispuntano una dopo l' altra. La Val Tournanche ci si offre con un sorriso incoraggiante. Le tormenta è passata oltre... Ci accingiamo alla discesa. La quale avviene a precipizio, a rotta di gambe e di collo, giù per l' erta nevosa degli sbarramenti morenici del Fornet. Con una corsa di mezz' ora a balzelloni e sdruccioloni, raggiungiamo la morena mediana che inserisce e infigge la sua punta scaglionata nel cuore del ghiacciaio, intersecando i campi immacolati che digradano dal Theodul, dal Breithorn, e dalla Gobba di Rollin. Dalla lunga interminabile morena, sulla quale si snoda una mulattiera ripidissima, raggiungiamo gli alti pascoli del bacino del Breuil, meravigliosamente gemmati dei più bei fiori di montagna. Sul Plan Torrette ci attende l' ultima meraviglia della giornata: la visione tragica e grandiosa del Cervino italiano. Questa faccia sud si presenta enorme, cupa, repellente, profondamente tormentata, quasi spoglia di neve, incisa da profondi solchi sbattuti da scariche di pietre, guar-nita in basso da una trinatura di vedrette e nevai.

E siamo all' estremo limite della Val Tournanche, il bacino del Breuil, dominato dall' albergo del Giomein piazzato come un fortilizio di fronte al massiccio del Cervino. Il colpo d' occhio è molto meno pittoresco e molto più circoscritto che nell' anfiteatro di Zermatt. La natura è più aspra, più austera e più selvaggia. Le montagne di un dominante color grigio-ferro, calano quasi a picco nel vallone: i ghiacciai sono più angusti e limitati. La massa del Cervino compensa, però, col suo aspetto strano e formidabile, la conclusa ristrettezza del panorama.

Dal Giomein a Val Tournanche, capoluogo della Valle, la strada mulattiera, quasi pianeggiante, ritrova le prime foreste di conifere, poi le regioni dei faggi e delle quercie. Il torrente Marmore, che scende dal Theodul, ingrossato dallo spumeggiante emissario che scende dal Cervino, ci accompagna col suo ritmo cortese. A Val Tournanche sosta e ripose. All' indomani, sotto un magnifico sole, discesa a Châtillon. Il treno nero e fumoso ci riprende e ci inghiottisce... Sfilano i castelli valdostani, neri, merlati e turriti; alla nostra destra si schiudono le valli d' Ayez, di Challant, di Gressoney, che risalgono ai piedi del Rosa, del quale portiamo ancora, amorosamente imprigionata nella retina degli occhi, la visione soave ed indimenticabile. Ecco la morena d' Ivrea, che segna l' estremo limite dell' avanzata del ghiacciaio primordiale della Val d' Aosta; ecco il Gran Paradiso con la sua candida mantiglia di ghiacci; ecco la pingue pianura piemontese; il Po...

Ma il ricordo della bianca, ineffabile visione dell' immenso anfiteatro di Zermatt ci persegue e ci assilla come la rimembranza di un magnifico sogno mutilato, dandoci un senso di nostalgia quasi accorata.

Giacchè la valle leggendaria ci ha fatto comprendere e provare la grande, terribile e spasmodica passione della montagna.Mario Quaranta

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