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L’himalaista spontanea Marianne Chapuisat, prima donna su un 8000 d’inverno

Marianne Chapuisat è la prima donna ad avere scalato un 8000 d’inverno. È stato 30 anni fa, al Cho Oyu. Una prestazione salutata con discrezione, all’epoca, ma rimasta ineguagliata per 25 anni. Incontriamo questa vodese che ama le vette, ma non la gloria che le circonda.

Una «gita scolastica in grande»: ecco come, a 23 anni, Marianne Chapuisat ha affrontato la sua spedizione al Cho Oyu (8188 m) in pieno inverno. Una spedizione caratterizzata da una relativa spontaneità e da spirito pionieristico. Niente portatori, niente ossigeno, né previsioni meteo. «Nessuno si organizza più così, oggi», scherza sorridente la vodese.

Per la giovane donna, quell’ascensione era «altrettanto improbabile di un allunaggio», scrive Bernadette McDonald in suo libro Winter 8000 (Mulatero, 2020). In realtà, l’allora studentessa in lettere all’Università di Losanna non aveva mai messo piede nell’Himalaya. «Ho seguito l’uomo che amavo», spiega lei. Fu in effetti la guida argentina Miguel Sanchez, detto «Lito», incontrato al campo base dell’Aconcagua, che la invitò a unirsi alla spedizione che progettava al Cho Oyu. «In un certo qual modo aveva garantito per me. Avevo un po’ paura di essere un peso per lui», confessa.

Un «principiante» decisamente tosta

Pur essendo neofita dell’alta montagna, l’allora giovane insegnante di educazione fisica non era affatto un’atleta della domenica. «Ero in uno stato di sovrastimolazione sportiva e di grande forma fisica, dove maggiore era lo sforzo, più ero felice», riflette in una classe del liceo losannese nel quale insegna da tre decenni.

La marcia di avvicinamento da Jiri richiede quasi un mese. «I venti erano violenti, il freddo costante e insidioso. Nella tenda c’era sempre un guscio di ghiaccio, ma tutto era compensato dalla scoperta meravigliosa dell’Himalaya completamente deserto.» Al campo base, il «sirdar» che non andrà oltre le presta la sua tuta in piuma, indispensabile per affrontare le condizioni in quota.

La realtà del terreno è dura. Supponendo un’anoressia dovuta all’altitudine, che non si verifica, la spedizione non ha con sé provviste a sufficienza. «Eravamo talmente affamati che abbiamo persino pensato di mangiare il riso consacrato dal lama alla cerimonia della ‹puja›», racconta questa donna dal buonumore contagioso. Il freddo glaciale colpisce  soprattutto Marianne, che soffre della sindrome di Raynaud, un disturbo della circolazione sanguigna alle estremità.

Nonostante tutto, il 10 febbraio 1993 il successo è all’appuntamento. Sulla vetta, quasi sorpresa di avercela fatta, l’alpinista vive un istante fuori dal tempo. Ricorda «una potentissima sensazione di gioia di vivere, di pienezza e di gratitudine, quasi un’illuminazione.» Modesta, Marianne Chapuisat ritiene di avere avuto «la fortuna della principiante». «È un miracolo che ce la siamo cavata tanto bene», conclude con il senno di poi.

Nessun exploit

Ora insegnante di francese, Marianne si prende un bircher nell’aula dei docenti, poi racconta la sua sorpresa al rientro a Kathmandu, dove Elisabeth Hawley, la cronista dell’Himalaya, afferma che lei è stata la prima donna a raggiungere la vetta di un 8000 d’inverno. La giovane alpinista si era posta l’obiettivo di superare la quota dell’Aconcagua (6962 m), scalato l’anno precedente, non di entrare nella storia dell’himalaismo.

In Svizzera, la notizia è accolta con minor clamore. Il quotidiano vodese 24 heures la saluta in marzo come «un importante exploit dell’alpinismo femminile», mentre la Neue Zürcher Zeitung cita la prestazione in agosto. È tutto. E tanto le basta.

E non si vada a parlare di exploit a Marianne Chapuisat! «Gli exploit si incontrano nelle prove che ci impone la vita, come affrontare una malattia mortale, attraversare Losanna in una sedia a rotelle o crescere da soli due bambini con 1000 franchi al mese, non nelle sfide che ci scegliamo», afferma. L’incontro con dei tibetani che fuggivano dall’oppressione cinese cercando di raggiungere il Nepal dal Nangpa La, a più di 5700 metri, l’ha d’altro canto «segnata nel profondo». «Indossavano scarpette da tennis, mente noi avevamo i ramponi. Per loro, quella era sopravvivenza, per noi una prestazione sportiva. Lo scarto è abissale.»

Nonostante tutto, la sua «prodezza», come lei la chiama, rimarrà ineguagliata per 25 anni, fino alla scalata del Nanga Parbat da parte della francese Elisabeth Revol nel gennaio 2018. Le è valsa anche il rispetto dei grandi dell’Himalaya, come Erhard Lorétan e Reinhold Messner, e l’accompagna nel quotidiano. «Ne ho tratto una specie di forza interiore e di fiducia in me stessa che mi aiutano ad affrontare certi compiti e la vita in generale. Ma anche la consapevolezza della nostra grande vulnerabilità», commenta.

«Sismografo della vita»

Sebbene abbia scalato altri tre 8000, il Gasherbrum I e II nel 2003 e il Nanga Parbat nel 2005, a spese della televisione spagnola, la socia della sezione Monte Rosa non ha mai cercato di vivere dell’alpinismo. «Non ho mai idealizzato il mestiere di guida, ho scoperto presto che andare in montagna quando ne avevo voglia era un regalo.» Neppure lo sponsoring era un’opzione, per lei. «Ci sono troppi rovesci della medaglia, si perde poesia e spontaneità.»

Oggi, la determinata cinquantenne continua a praticare assiduamente l’alpinismo, l’arrampicata e lo sciescursionismo. «Una bella gita in montagna è come un sismografo della vita accelerato, con un’intensità di emozioni e un fuoco d’artificio di sensazioni condensati in poche ore», riassume.

La cittadina di Les Granges sur Salvan non ha in programma altri 8000. «Ciò che l’Himalaya è diventato mi delude, bisognerebbe avere dei progetti originali.» Ci sono più opportunità di incontrarla nelle Alpi. E sebbene  tenda piuttosto alla verticale, non è impossibile scoprirla su terreni orizzontali: la sportiva confessa «il fascino per la semplicità e la leggerezza dello skating», soprattutto sulle piste di fondo del Giura, che riscopre felicemente ogni anno.

Di certo, Marianne Chapuisat non sarà la prima donna in vetta allo Chasseral d’inverno, ma quello non è l’essenziale.

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