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Albania sconosciuta Avventura bucolica nel Prokletije

Più di vent’anni dopo la caduta del regime comunista, l’Albania settentrionale sembra ancora tagliata fuori dal resto del mondo. Le sue vallate racchiuse tra le montagne si aprono poco a poco all’escursionismo. Già arrivarci è un’avventura.

Sediamo sotto le stelle attorno a un tavolo in legno nel prato di una guesthouse di Theth (Gjeçaj), davanti a una zuppiera fumante. Sfoglia agli spinaci, polenta, insalata di pomodori, stufato di fagiolini e formaggio attendono le nostre forchette. Prima di tracciare devotamente una croce sul pane, la nostra ospite ha posato una bottiglia di raki piena e un fondo di caraffa di vino. Considerata la piccola quantità, deve trattarsi di un famoso nettare. Oppure di un pessimo torchiatico. Il raki, bevanda nazionale, finisce per imporsi all’unanimità. Brindiamo alle montagne che ci circondando. Sono le Alpi del Nord, continuazione e culminazione delle Alpi Dinariche, di cui la valle di Theth, decretata parco nazionale nel 1966, è diventata il cuore – e anche la destinazione prediletta dei visitatori stranieri.

I nostri vicini di tavola, venuti dalla capitale, Tirana, partono domani per un’escursione di tre giorni verso la vetta più alta della regione, il Maja Jezercë (2692 m). Il tutto è stato organizzato per telefono con una guida locale. L’anno scorso erano arrivati da Tirana senza preavviso e non hanno trovato un solo letto in tutta la regione di Theth. Si era in agosto, e tutte le guesthouse erano al completo. «Alla fine ci hanno sistemati in una soffitta piuttosto lontano, nel villaggio di Nderlysa.» Fatto tesoro dell’esperienza, questa volta hanno prenotato ogni cosa: camere, guida, asino e – in primo luogo – il bel tempo e la vetta del Maja Jezercë perfettamente sgombra.

 

Turismo ancora balbuziente

L’Albania incuriosisce. Secondo lo standard europeo, a quasi vent’anni dalla caduta del comunismo il paese delle aquile non è considerato sviluppato. Nonostante la sua capitale, Tirana, offra un’immagine opposta. Ad ogni modo, in questi ultimi anni il nord del paese sta vivendo un boom turistico senza precedenti. «La scorsa stagione, la sola regione di Theth ha registrato l’afflusso di 10 000 visitatori», afferma Roze Rupa. Incaricata della promozione per conto del Ministero del turismo, del tempo libero e dello sport albanese, è essa stessa guida e gestisce una guesthouse a Theth. Quando poi si sa che la valle, isolata durante sei o sette mesi l’anno, è accessibile unicamente attraverso una pessima pista zigzagante che da Bogë supera il passo di Buni i t’Thores a 1670 metri, si rimane scettici. E sbalorditi.

Lungo i sentieri di montagna, nessuno. Per una buona ragione: la valle nella quale si arriva a 676 metri è uno scrigno di smeraldo protetto da una vertiginosa corona di 2000 metri. Salire oltre richiede energia. Anche Nika, la guida dei nostri vicini di tavolo che si lanceranno oggi nella salita al Maja Jezercë, arrivato in anticipo si vede offrire un raki. Ma rifiuta energicamente il secondo, adducendo che si tratterebbe del quarto e che c’è comunque un limite anche alle cose buone. Al termine della colazione veniamo a sapere che l’asino si trova da qualche parte ai piedi del passo, che ci andranno in macchina con l’equipaggiamento e che lasceranno la macchina lassù. «Lassù» è da un cugino, un amico, forse addirittura il proprietario dell’asino.

Escursione bucolica (o quasi)

Mentre loro si preparano, noi partiamo per l’alpe di Fusha e Dhënellit costeggiando i canali di irrigazione. Il cammino è disseminato di sterco fresco, segno che le famiglie di pastori si sono trasferite lassù per i mesi estivi, nelle capanne dai tetti di rami. I pascoli d’alta quota sono allora il regno delle pecore e dei giochi dei bambini. I genitori si occupano della sorveglianza delle greggi, della mungitura e della preparazione del formaggio. E con un grido ci invitano da lontano a prendere un caffè o un bicchiere di latte.

Ma la gran parte dei visitatori non si sforza di salire oltre la vegetazione. Si contenta dell’aria pura, dell’estraniamento e di questa vita montanara ritmata dal canto del gallo e dal sonno delle galline. Si disperdono sull’itinerario della cascata nelle gole di Grunas. Passano per la chiesa di Theth. E per una torre dall’aspetto inquietante detta kulla. Quest’opera in pietra di epoca medievale è a lungo servita da rifugio alle vittime della gjakmarrje, letteralmente «ripresa del sangue», una forma di vendetta contemplata dal Kanun de LekëDukagjini, un codice di usanze risalente al XV secolo. Oggi ancora vigente in Albania, esso prevede che, per lavare

l’onta all’onore della famiglia, un assassinio sia vendicato mediante l’uccisione di un uomo del clan nemico.

Cosa fare in queste montagne?

L’Albania montagnosa, vale a dire il 70 percento del territorio, sopravvive esclusivamente con i proventi dei visitatori stranieri. L’agricoltura e l’allevamento tradizionali non consentono più di rispondere alle esigenze. I giovani emigrano, in Italia, Germania, Svizzera, Stati Uniti, Inghilterra, Grecia. «Sfortunatamente, quelli che fanno ritorno pensano solo a costruirsi una casa enorme. E a ripartire. Non producono niente, non sviluppano niente», constata Mina Ubbiali, dell’ONG italiana Volontariato internazionale per lo sviluppo (VIS), insediata a Tamarë. Le suore francescane che operano in queste vallate offrono ai giovani disposti a studiare un centro di accoglienza nella città di Shkodër. Poi, se il postulante è capace, l’università. In Italia. Ma al termine della loro formazione, i giovani non ritornano. «Cosa vuole che facciano i giovani tra queste montagne?», chiede la francescana.

A Tamarë, un gruppo di tipi svegli ha allestito una birreria artigianale. Dei baracchini vendono prodotti regionali; il professore del ginnasio ha aperto un cybercaffè. Più in alto è attivo un allevamento di trote. «Ma il problema di tutti, non è tanto di produrre, quanto di andare in città a vendere», insiste Mina Ubbiali. «45 anni di comunismo hanno paralizzato l’iniziativa personale.»

 

Sapori e aromi a Lepushë

Gjystina Grizha non ha questo genere di problema. Il fatto che d’inverno il suo villaggio di Lepushë rimanga sepolto sotto la neve durante sei mesi non la tocca. D’estate raccoglie l’origano, con il quale si fa una tisana chiamata çaj i malit (tè delle montagne). Lo mette a seccare a mazzetti sulle sue finestre, e lo imballa per proporlo agli ospiti di passaggio assieme all’arnica e alla primula officinale. «I porcini secchi li vendo a 50 euro al chilo. Ma un chilo secco…», sottolinea in italiano, con dei gesti molto latini che traducono efficacemente il volume. La dimora di Gjystina funge anche da ostello. Si mangia al tavolo della famiglia, seduti sulle molle di un divano, con il naso a filo di una tavola imbandita con piatti aromatizzati alle erbe selvatiche: coniglio alla salvia e all’origano, insalata di cetrioli al dragoncello. «Scendendo, avete visto le piccole orchidee malva nei grandi pendii erbosi? È con le loro radici essiccate e macinate che si produce il salep (una bevanda un tempo ampiamente apprezzata nelle regioni soggette all’impero ottomano).»

E proprio allora, la corrente elettrica già deboluccia è vittima di una drastica caduta di tensione. Meglio dedicarsi alla ricerca del letto. La polvere di salep, i dipinti del fratello poliziotto a Vermosh e l’insegna che sta progettando per la prossima apertura della bottega delle erbe, sono cose che vedremo domani.

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