Arcobaleno (Racconto) | Club Alpino Svizzero CAS
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Arcobaleno (Racconto)

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Anna Mosca, Siena

( Racconto ) Ciò che voglio raccontarvi vi sembrerà incredibile. Invece è una cosa semplice, è la verità.

La posta mi portò, al principio dell' estate, uno di quei fascicoletti appartenenti ad associazioni beneficile, che tengono tra le pagine un vaglia da riempire. Qualcuno se ne riempie, qualche altro se ne getta via; questa volta conservai solo la fode-rina colorata del fascicoletto e la posai su un angolo del mio tavolo da lavoro.

Perché? Mah! Così per capriccio, credetti. C' era scritto a grossi caratteri azzurri « Arcobaleno » e rappresentava in primo piano uno chalet, nel fondo una vallata e delle montagne altissime. Specialmente una, così aspra e sassosa, con le pareti a picco colorate di grigio e di rosa, con fessure di abisso piene di mistero, con splendore di vette gelide. Una montagna da ascensioni di sesto grado, insomma.

Ogni tanto, anche in quei primi giorni, andavo a guardare con una sorta di ansia e di smemora-tezza la piccola figura. Anzi, man mano che il tempo passava mi accorsi che vi cercavo qualcosa; credo che stessi attendendo. Questa forma di angoscia fatta di nebbia, talvolta però si smembrava come un cielo compatto e grigio che lasci scorgere strappi di azzurro; allora anch' io stavo proprio per scoprire ciò che cercavo, ma gli strappi di azzurro si ricucivano e l' enigma restava.

Bisogna dire che la mia casa è piena di quadri assai notevoli i quali rappresentano anche montagne, e di libri con illustrazioni che ne parlano e le descrivono minuziosamente. Eppure tutto ciò era divenuto come un non senso di fronte a quel piccolo pezzo di carta. Esso acquistò tanta importanza per me, che proibii a chiunque non dico di gettarlo via, ma neanche di toccarlo, di sfiorarlo. Abituati a ciò che chiamano « le mie stramberie », nessuno si curò più di me, né di ciò che posava sulla mia scrivania. Fui pienamente libero.

Passarono così le settimane; ora era piena estate con quei lampi di luci bianche che penetrano anche nelle città fin dentro le stanze per ricordare gli spazi, le altezze senza confine e l' umiltà; insomma, ciò che cerca il piccolo uomo quando si arrampica su per la montagna.

Un giorno, finalmente, fui assorbito da una sensazione strana, come uno sdoppiamento, e seppi ch' essi erano pronti e stavano per uscire dallo chalet. Li vidi infatti poco dopo incammi-narsi uno dietro l' altro, due uomini e una donna: il loro passo era allungato, lento, sicuro, possedevano le qualità degli alpinisti bene allenati; forse qualcuno di loro era cacciatore di camoscio stan-becchi. Il loro equipaggiamento era completo: corda di manilla, piccozza, lanterna pieghevole, sacco con lunghe tasche laterali, le borracce di cui una rivestita di panno ( ripeto che nessun particolare mi sfuggiva ), una fiaschetta, occhiali da neve, chiodi da roccia e da ghiaccio con martello per infiggerli, scarpe di tipo inglese e ramponi da ghiaccio.

Occorse un bel po' perché arrivassero alla base della montagna e iniziassero la prima parte della salita. In questo periodo, più che loro osservavo quelli restati nello chalet, che ogni giorno li seguivano dalla terrazza e dal prato con i binocoli. Di-scutevano spesso e potevo udirne i discorsi: avevano fiducia negli alpinisti, questo era chiaro, ma tuttavia dubitavano che ce l' avrebbero fatta. Non per mancanza di abilità o di forza, per s' altro che ancora non captavo bene; un perché che si agitava un po' in tutte le loro parole e - devo dirlo - anche nei miei silenzi, senza dichiararsi mai apertamente, con un sospetto di ragioni a nessuno di noi ben note.

Mi feci allora più attento ai tre che volevano salire inesorabilmente. Li individuai con la punta della mia penna lungo un costone, in una piccola ansa della roccia dove quella notte si erano fermati a bivaccare. Sembravano molto in forma e del tutto camerateschi. Quello tarchiato, con occhi da miope, dava di grandi manate sulle spalle all' altro. Parlava con una voce sonora e cordiale. Ma non rideva mai. Stando accucciati alla meglio, scaldavano qualcosa sui loro fornelli, divoravano i cibi sintetici, si accordavano sulle modalità da tenere nel tratto di cordata in parete che li aspettava al mattino.

Non avevano alcun dubbio sulla riuscita l' impresa. Erano ancora riposati e forti. Avevano un aspetto tanto normale che lì per lì mi tranquil-lizzai ed attribuii le sensazioni che mi turbavano ai soliti misoneisti dello chalet, coi binocoli pieni di pessimismo puntati sui monti.

Così, al mattino dopo, con un segno netto della mia penna non so se seguii od aiutai i rocciatori per un canalone quasi a picco, veramente inquietante. L' ascensione andò bene anche questa volta; ma c' erano poi tanti ostacoli da superare...

Faticai per molto tempo con loro: vennero eseguite traversate in parete, passaggi di strapiombo, arrampicate dirette, salite dentro i camini - lunghe fessure che i tre superarono così come nelle cengie e nelle cornici strette - obbligati a mano-vrare in fuori, col corpo lontano dalla roccia quanto potevano, per esplorare bene la parte superiore prima d' infiltrarvisi.

Allo chalet non facevano altro che fissare coi binocoli quei puntini attaccati ostinatamente alla roccia, attendendo che qualcuno se ne staccasse. Gli alpinisti ne sentivano la lontana esistenza, ma solo come uno stimolo: lentamente ogni giorno infiggevano i chiodi, scavavano con la piccozza, afferravano appigli naturali o creati da loro stessi, ma avanzavano, salivano sempre più in alto con una bravura o una fortuna indiscutibili, apparentemente affratellati da quella lunghissima corda.

A casa mia, mi vedevano ogni tanto lasciare a mezzo il pranzo, o una conversazione, o il lavoro per correre ad esaminare la piccola carta. Tutti credevano, vedendomela prendere con impeto tra le dita, che le avessi attribuito le facoltà di un talismano ( avendo una natura delicata e fantastica, sono soggetto ad ogni sorta di suggestioni ), invece non facevo che seguire la famosa scalata della montagna con trepidazione ed amore.

Avevo imparato non solo a distinguere fisicamente l' uno dall' altro i protagonisti, ma a conoscerne il nome, il carattere, le abitudini. Ormai sapevo che l' uomo tarchiato e miope era Ernst, il quale prediligeva alla sera appartarsi, come racchiuso nella sua giacca a pelo. Otto e Milena, invece, parlavano stando vicini ancora a lungo, prima di assopirsi tutti nell' anfratto di roccia che ogni notte sempre più in alto si sceglievano per riposare.

Man mano che si avvicinavano alla vetta, cominciai a notare durante quelle loro soste un certo nervosismo. O meglio: era Ernst che senza dir nulla creava in me uno stato d' animo a cui avevo messo nome « nervosismo », ma che forse era molto di più. Il modo come osservava sempre Milena e Otto, intensamente pur senza guardarli, uno sguardo interno che per la prima volta mi parve ambiguo. Probabilmente m' ingannavo ma il disagio continuava e ricordo che il sospetto mi tolse persino l' appetito e mi procurò alcuni mali di testa.

Forse Otto era amato dalla donna; in ogni modo in quest' ascensione era indubbiamente la guida di punta, il più abile, colui che affronta per primo le azioni arrischiate. Dopo di lui saliva sempre Ernst e poi veniva Milena. Nelle ascensioni verticali, la formazione degli alpinisti è sempre composta così: il più forte in alto, il più debole in fondo.

Ernst, nel centro, badava soprattutto a se stesso; Otto vigilava continuamente un po' su tutti, assicurandosi della corda, fermandola bene alle rupi o alla piccozza nei punti pericolosi, pronto a sorreggere i compagni in caso di caduta. Del resto, Otto aveva il corpo snodato, agile nel saper trasportare il centro di gravita velocemente là dove occorresse, senza scosse, orizzontalmente o verticalmente. Ernst non aveva in sé la sua pazienza e tranquillità. Aveva lo sguardo più duro che tenace, Ernst.

Intendiamoci, in apparenza non risultava ch' egli avesse cambiato il suo atteggiamento cameratesco nei riguardi dei compagni. Con gli altri seguitava sempre a dire che proprio e solo « tutti insieme » avrebbero potuto raggiungere quella difficilissima vetta. Pensavo che lo stesso Ernst fosse nell' intimo convinto che mai avrebbe potuto superare certi abissi della montagna, se non ci fosse stato Otto a vincerli per primo. Mi aspettavo dunque da lui un segno di riconoscenza, ma come ho detto egli non mostrava molto i suoi sentimenti.

Ora bisognava ancora fare un passaggio di strapiombo, e poi l' uomo di punta lo avrebbe fatto lui. Per l' ultimo tratto, si erano addirittura accor-dati per salire ciascuno liberamente la parete, essendo poco pericolosa.

Li seguii centimetro per centimetro sulla mia piccola immagine. Furono formidabili, ma Otto apparve più che un ragno o uno scoiattolo, una anima lieve, aerea, che sfiorasse solo la roccia come giocando; quella roccia grigia e rosea da lontano e da vicino così dura, terribile. Si capiva che la conosceva e che la roccia conosceva lui; si capiva che tra Otto e la montagna c' era un patto bellissimo, un patto di amicizia, e anche la montagna diveniva come lui un' anima lieve e plasma-bile al suo contatto.

Li vidi, quel giorno d' incubo, così come non potevano più vederli quelli dello chalet ( perché si ha un bel dire, ma il binocolo non arriverà mai là dove giunge la passione perle anime ) mentre stavano per raggiungere l' ultima cima.

Otto non era già più alla guida del gruppo, Ernst seguito da Milena conduceva. Giunsero a un terrazzino di roccia e si liberarono della corda che li teneva uniti. Ormai sembrava che giocas-sero e fossero giunti alla fine di ogni fatica. Infatti, l' ultimo breve tratto da percorrere era senza pericoli o quasi, sarebbe stato così bello inerpicarsi ciascuno da solo.

Ernst partì per primo verso l' alto e Milena lo seguì per una sua linea trasversale che la divertiva. Otto non aveva alcuna fretta, si volgeva ancora a guardare la vallata respirando profondamente. Poi un masso rotolò su di lui, gli tolse 91 l' equilibrio e lo trascinò. Ebbi lo stesso grido terribile di Milena, ma Ernst era rimasto lassù in alto, dritto e muto.

Passai una notte infernale, agitandomi continuamente nel letto. Al mattino dopo avevamo la radio aperta come sempre, mentre facevamo colazione con caffè-latte, burro e marmellata. Tra le altre notizie sentimmo questa: durante l' ascen di tre giovani danesi - due uomini ed una donna - sul monte D., Otto R. è precipitato. Ha scorto i due superstiti per caso un elicottero del locale servizio di sorveglianza ed ha prelevato la donna che pareva priva di sensi e nell' impossi di affrontare la discesa. L' altro uomo, un certo Ernst K., resulta perfettamente in forma ed ha dichiarato che calerà a valle da solo lungo l' altro versante, assai più dolce, della montagna. Continua la ricerca affannosa, da parte di altri elicotteri levatisi dalla stazione di soccorso, del corpo dello sfortunato alpinista che ha trovato la morte a pochi metri dalla vittoria.

La notizia passò, per i miei familiari, così come molte altre che ci propina ogni giorno largamente quella piccola feroce scatola sonora che ci abitua al cinismo: nella quasi totale indifferenza. « Po-veretto », disse forse qualcuno addentando una fetta di pane abbruscato ben carica di confettura ai fichi.

Ma io ero stato preso da un tremito. Avevo visto benissimo — capitebenissimo sulla mia piccola illustrazione quando Ernst spinse il masso su Otto, ed ora sapevo anche dell' odio tremendo di lui celato sotto quello sguardo sfuggente — odio, rancore, gelosia, chissà — per una donna, per una montagna, per un amore o una gloria perduti, tutta una vita, sempre, attendendo di vendicarsi. L' agguato, il calcolo freddo, la viltà improvvisa e feroce, quando la parte bestiale dell' uomo esplode e ogni vernice di civiltà, di umanità si volatilizza.

Neanche Milena aveva visto la verità come la conoscevo io. Nessuno avrebbe parlato. Ernst poteva vivere tranquillo, si sarebbe sempre pensato a un incidente.

Egli possedeva ora la gloria ed Otto l' abisso. Mi chinai sulla mia figurina colorata fremendo: laggiù, in qualche anfratto oscuro ed umido c' era dunque un corpo dilaniato, del sangue aveva tinto di rosso le rocce rosa e i piccoli fiori. E nessuno, nessuno a vendicarlo...

A un tratto la sensazione misteriosa provata la prima volta discese in me. Non ero più io stesso, ma le cose che desideravo vedere e conoscere. Tenendo una mano sulla carta sentit che Ernst discendeva in quel momento lungo una parete, attaccato ai suoi chiodi che con molta cura infig-geva uno a uno sulla montagna. Presi allora la matita e, quasi gridando, cancellai violentemente i suoi appigli ed egli franò giù nell' abisso. Sì, precipitò, con una cascata di piccoli sassi che lo seguivano, gli occhi spalancati, terribili.

Lo vidi proprio morto, laggiù nel fondo. Poi sentit dentro di me una preghiera, me la portai nelle fibre più segrete tutto il pomeriggio; forse era Milena che domandava qualcosa intensamente a Dio.

Passai un' altra nottata smaniando e tremando, tanto che mia madre credette che stesse per venirmi una grossa febbre. Ma non era questo. Al mattino mi sentivo molto meglio; come placato.

Mi alzai e mi posi al nostro tavolo per la colazione. Attendevo di nuovo ma questa volta con certezza. La radio comunicò prima tutte le notizie politiche, poi si passò alla zavorra. Tra queste, venimmo a sapere che durante il ritorno, l' alpini Ernst K. era misteriosamente scomparso, davvero introvabile; mentre invece gli elicotteri erano riusciti a scorgere Otto R. ferito ma ancora vivo attaccato a un terrazzino di roccia. Una spedizione di soccorso lo aveva già portato in salvo.

A questo punto sorrisi in modo enigmatico — mentre i miei familiari scuotevano la testa sconso-latamente - andai a prendere dal mio tavolo la copertina della piccola rivista e la strappai in quattro pezzi.

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