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Calanchi, doline e vista sul mare A Trieste attraverso il Carso sloveno

Il paesaggio carsico che si estende dal sud della Slovenia al golfo di Trieste è tutt’altro che un desolato deserto di pietre. Sinora, la scoperta turistica si limita tuttavia alle splendide grotte.

Il fragore non è localizzabile e si fa più forte a ogni passo. Improvvisamente, ecco emergere un parapetto metallico, oltre il quale la Terra si apre in un gigantesco cratere. È come se si fosse aperta una finestra che consentisse di vedere un mondo sprofondato. Laggiù, un centinaio di metri più in basso, masse d’acqua precipitano in una cascata schiumante, attorniata da coste rocciose ricoperte da un bosco rado.

Il buco è la dolina di Škocjan, un fenomeno carsico da manuale. Qui, la superficie terrestre è stata percorsa da acque sotterranee abbastanza a lungo da collassare, dando origine a un gigantesco imbuto. Scendendo la scalinata assicurata si riconoscono la grande fessura nella parete rocciosa attraverso la quale il fiume selvaggio si incanala e la caverna dalla parte opposta, nella quale torna a scomparire. Con questo, l’escursionista ha imparato la sua prima lezione: quando nel Carso da qualche parte scorre dell’acqua, è sempre sotto terra, e si è fortunati se – come in questo caso – almeno per un po’ si mostra in superficie.

Il tutto è dovuto alla corrosione, un processo chimico per il quale l’acqua piovana scioglie la pietra calcarea. Questo dà luogo a canali che sprofondano sempre più nella superficie della pietra, fin quando l’acqua non scompare in strati sottostanti. I gitanti faranno perciò bene a mettersi in cammino solo con delle borracce colme d’acqua.

Non un deserto di pietre

Sentendo il termine «carsico» molti pensano a un desolato deserto di pietra. Un pregiudizio che risale all’epoca in cui nella regione si esercitava il pascolo intensivo. In seguito all’emigrazione, il «kras» sloveno si è ritrasformato nel paesaggio altamente variegato che era prima dello sfruttamento umano.

Da Škocjan si risale una piccola valle idilliaca, attraversando più volte il letto asciutto della Sušica. Altrimenti, qui nulla allude al carsico che comunemente immaginiamo: pascoli bucolici irradiano di tenero verde, orchidee e asfodeli costeggiano il sentiero, il fondovalle è circondato da fruscianti boschi misti. Un piccolo frutteto e un recinto nel quale sono rinchiusi dei lipizzani sono ormai da tempo gli unici indizi di una cultura.

Il punto saliente della tappa è la sommità ben visibile dell’Artviže dove – stando a una canzone popolare slovena – si è altrettanto vicini al diavolo e al buon Dio. A 817 metri sopra il livello del mare, la vista è ad ogni modo paradisiaca: lo sguardo spazia da un lato fino alla catena alpina e dall’altro alla piramide regolare dello Snežnik, che indica a oriente il confine con la Croazia. Tutto attorno, infinite vallate, la cui verde monocromia è interrotta qua e là solo dal rosso dei tetti di singoli villaggi. La natura avanza, il tempo si è fermato.

Come in un sogno, poco dopo ecco l’Adriatico all’orizzonte. A occhio nudo si distinguono le gru di Koper – Capodistria – il prospero porto mediterraneo della Slovenia, mentre a sud il paesaggio si perde fino alla lingua di terra di Pirano. Oltre la linea costiera sembrano librarsi nella foschia alcune grandi navi da carico, e anche qualche barca a vela – puntini in movimento nella natura morta del mare.

Paradiso in un clima aspro

Il secondo giorno di escursione, la strada prende a est, in direzione della Croazia. Lungo la poco appariscente catena collinosa del Golič, dopo una buona oretta si raggiungono gli 800 metri del Kojnik. Ora il bosco si apre, e il cammino si disegna in un altopiano aperto: terra di nessuno slovena che si incunea nel territorio croato. Lo scenario è paradisiaco: in mezzo a pascoli fioriti con anemoni di montagna, narcisi, peonie e orchidee si ergono solitari alcuni sorbi selvatici e contorti pini neri, segnati dall’aspro clima del Carso, dovuto non solo all’altitudine, ma anche alla spietatezza della bora, il famigerato vento catabatico che, soprattutto d’inverno, spazza da nord-est le desolate quote portando con sé tutto ciò che è privo di robuste radici.

Sul versante meridionale del Golič, il paesaggio si fa più roccioso. Abbiamo ormai raggiunto il «Kraški rob», il margine del Carso, che si estende lungo l’Adriatico italiano fino a Monfalcone – che siccome in taluni punti precipita a piombo, è diventato una delle dritte della scena internazionale dell’arrampicata.

Un mare di cocci

Presso Podpeč, ripidissime scale portano sull’altopiano carsico. Giunti in cima si respira a fondo – ma è troppo presto per rallegrarsi: infatti, proprio qui, alla sua fine, eccoci giunti nel carso «vero», un unico campo di pietre in cui crescono erbe appassite, nel quale occorre prestare attenzione a ogni passo. Simili a ossa sbiancate, dal terreno spuntano affilate lame calcaree che minacciano di fare a brandelli le suole. Anche il rumore della camminata è cambiato: i detriti calcarei tintinnano sotto le suole, come se si camminasse in un mare di cocci.

Nel cielo si scorgono i primi gabbiani, e nel quadro fanno la loro comparsa gli impianti portuali di Trieste. Senza accorgercene, siamo passati in territorio italiano. È sorprendente come, nel Carso, squallide zone industriali e paesaggi idilliaci riescano a convivere. In Val Rosandra, l’ambiente diventa addirittura alpino. Lungo una cresta rocciosa stretta e mozzafiato si scende all’unico fiume carsico che scorra interamente in superficie. Il mare è ormai a portata di mano – ma troppo lontano non lo è neppure mai stato. Carso e mare – ecco un’altra lezione – vanno di pari passo. Sebbene sia ­difficile immaginare una contrapposizione più grande, ­costituiscono un’unità indissolubile, bizzarra e affascinante – quantomeno per colui che si avvicina all’antico porto franco con la lentezza del pedone.

La geologia in sloveno

Chi crede che la ricerca sui fenomeni carsici abbia preso avvio nelle Alpi si sbaglia: vide invece gli albori nel XVII se­colo nella slovena Primorska, dove degli scienziati di lingua tedesca ripresero termini locali come dolina, polje o uvala, che da allora sono entrati a far parte dell’ABC del carso. Un altro termine sloveno ha poi assunto uno sgradevole doppio significato: la «foiba», una profonda fessura carsica che in profondità si può aprire in ampie caverne. Poco dopo la fine della guerra, formazioni partigiane jugoslave vi avevano fatto precipitare funzionari della forza di occupazione italiana e collaboratori sloveni. Il cosiddetto «infoibamento» pregiudica a tutt’oggi le relazioni tra Italia e Slovenia.

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