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I Monti Pallidi

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Con 2 tavole ( 57, 58Di Giuseppe Ritter

Impressioni e riflessioni su una traversata della Ladinia ( Chiasso; Verso metà febbraio, favorito dal bel tempo, ma sfortunato per la scarsità di neve, feci un secondo giro solitario delle Dolomiti. Ebbi campo di riconoscere veritiero ciò che disse l' uomo delle leggende dolomitiche, C. F. Wolff, quando scrisse:

— Chi ha passato qualche tempo fra le Dolomiti, da un irresistibile fascino sarà sempre attratto a tornarvi.

Cominciai la traversata a Dobbiaco e la terminai a Ortisei, dopo aver ammirato la Cima Grande di Lavaredo dal M. Piana e valicato i Passi Tre Croci, Falzàrego, Campolungo e Gardena. Raccolsi un tesoro di preziose impressioni e mai dimenticherò quelle montagne che, frastagliate d' eccelse cime, si estendono imponenti e maestose dal confine austriaco fino ali' Orties.

Non ho da elencare arrampicate spettacolose e non posso descrivere itinerari nuovi e prime assolute. Non oso nemmeno inneggiare a quelle più belle e più bizzarre vette, perché tutto ciò fu già fatto da notissimi autori e da rinomatissimi conquistatori. Non mi resta quindi che un breve accenno sulla situazione psicologica degli uomini che vivono, soffrono e operano nelle valli e le ampie conche ai piedi di monti superbi, irti e dentati.

L' impulso per tentare un saggio simile mi venne, quando — salendo da Corvara al Passo Gardena — raggiunsi Colfosco. Già nell* ottobre dell' anno precedente avevo notato quell* antico « Albergo della Cappella » ed ora decisi di fermarmi un quarto d' ora. Ristorandomi con una tazza di birra, contemplai i dipinti sulle pareti di legno. Cercai di interpretare i testi scritti in una lingua molto strana che non può essere che una forma di antico ladino.

Ebbene, questi dipinti che mostrano una singolare mescolanza fra miti, leggende e storia, mi sembrarono una chiave per comprendere l' anima di quella gente taciturna e quasi inawicinabile che, padroneggiando tre lingue differenti, risiede da tempi immemorabili fra due razze diverse, fra due colture e due concetti di vita. Di quella gente insomma che, col tramonto delle piccole repubbliche indipendenti, perdette la sua autonomia culturale e quindi anche una parte della sua anima particolare, ma che nondimeno ha saputo conservarsi un tesoro di antiche istorie fantastiche, un mondo irreale, abitato da stregoni, nani e principesse incantate.

Non voglio ripetere i fatti eroici della storia tirolese, troppo noti in tutto il mondo. Vorrei semplicemente limitarmi ad un esame dell' attuale situazione psichica nelle valli della ex-zona austriaca. Cosa risente e pensa quella gente, spietatamente macinata fra le macine di due sistemi totalitari, terribilmente decimata dalle stragi della seconda guerra mondiale?

Innanzitutto si osserva con stupore, come i ladini, pur essendo rimasti di nazionalità italiana, dimostrano una predilezione per la lingua tedesca. Così il viandante può ammirare a San Cassiano, comune ladino nella valle orno- nima, un antichissima insegna da ristorante « Zum weissen Rossi ». Questa strana preferenza, a mio modo di vedere, si spiega con due fatti importanti. In primo luogo va detto, che la generazione che subì in pieno l' influsso l' italianizzazione forzata, è rimasta sui campi di battaglia, soprattutto della Russia. Gli uomini che rappresentano oggi la mentalità ladina, sono cresciuti sotto il dominio austriaco e ci tengono a far rivivere quei tempi ormai lontani.

D' altra parte i ladini non hanno dimenticato il grave pericolo che mi-nacciò la loro cultura, quando certi filologi tendenziosi, al soldo di un concetto scientifico totalitario, dichiararono il ladino semplice dialetto provinciale d' Italia.

Un altro fatto che impressiona l' attento osservatore, è il profondo pessimismo che pesa ovunque sulle anime. Sta bene che oggidì nessuno ha motivo di dimostrare un eccessivo ottimismo. Ma lassù, fra le orgogliose cime dolomitiche, si soffre non solamente del « malaise » generale, ma di una profonda sfiducia nel proprio destino, nel senso di giustizia dell' umanità e forse anche nella provvidenza divina. La delusione degli ultimi anni ha ulteriormente smussato l' impulso vitale di quei montanari che già per sé tendono al fatalismo, alla rassegnazione. Così, nelT ottobre scorso, scambiando due chiacchiere nel ristorante « Zum weissen Rossi » a San Cassiano e quando accennai alla nuova strada che — in parte già costruita — dovrà legare il Passo Falzàrego alla Val Badia attraverso la Valparola, mi si disse:

— Ci hanno promesso che la strada sarà ultimata l' anno prossimo. Sta bene; ma chi sa cosa ci sarà l' anno prossimo? Fra noi già non ci crede nessuno! Si parla troppo e si fa troppo poco; si promette tutto e non si mantiene nulla!

Questo pessimismo supera certamente ciò che si potrebbe giudicare espressione normale d' una vita dura e faticosa, dell' esistenza misera su una zolla magra. Vorrei definirlo estrema, somma disperazione di chi — avendo sfiorato l' abisso — ha perso l' anima, la bussola e la speranza. Come quel tale che incontrai nel maggior centro della Val Gardena e che potrà servirci da oggetto di studio.

Quando, il sabato dopopranzo, attesi il mio turno nel salone d' un barbiere occupatissimo, vidi entrare un tizio, tipico rappresentante della razza tirolese, ma ubriaco e strapieno. Brontolando si sedette alla mia destra. Con-tinuò a parlare, un pò in italiano, un pò in tedesco, un pò in ladino. Ed ogni tanto ripeteva la frase:

— Pochi sono ritornati, ma quelli che sodo ritornati, sono ritornati! Compresi allora che dovette trattarsi d' un reduce dalla Russia. Infatti egli non seppe che accennare a cose che visse laggiù, negli anni più tristi della sua vita, ma che erano ormai da lungo sorpassati. Ricordai che è sin-tomo caratteristico dei pazzi ed ubriachi di dover sempre e poi sempre ripetere le stesse cose, per giorni, per mesi ed anni, senza mai poter passar oltre, senza poter cancellare dal cosciente ciò che dev' essere dimenticato, annullato, superato.

E poi ogni tanto quella frase:

— Pochi sono ritornati...

Fra me pensai:

— Meglio sarebbe stato di non essere ritornato. Perché ritornare senza anima, senza onore, senza virilità, non ha scopo, non ha ragione alcuna. Ritornare come misero rudero di ciò che si era, per essere umiliato, disprezzato e condannato da tutti, per magari rendere infelice una famigliuola, una vasta parentela, no, è proprio meglio non ritornare.

E quando il barbiere mi tolse la barba, mi disse in un orecchio:

— E' proprio peccato per quel povero uomo! Era una volta un bravo artigiano, un buon padre di famiglia, un cittadino corretto ed onesto. Ma dopo che è ritornato dalla guerra, beve, beve, beve. E a pensare che ha una brava donna e sei figli!

Da allora ho spesso pensato al dramma che sconvolse la vita, non solamente di quell' ubriacone, ma di molti bravi montanari, che ritornarono, ma non più quello che erano prima di partire. Con perseveranza ho cercato di esplorare i fattori che poterono determinare un simile collasso psichico.

Se noi siamo quello che siamo, ciò dipende non solamente dall' arbitrio delle parche che mischiarono i pregi ed i difetti dell' anima nostra, ma anche dall' influsso dell' abiente nel quale siamo nati, nel quale abbiamo sofferto, dal quale abbiamo assorbito un complesso di impressioni visuali, uditivi e sensitivi. E se tutto questo vale per l' uomo in generale, sotto qualsiasi sole del mondo, allora vale in modo particolare pel montanaro. Lui che ha la sfera vitale prettamente circoscritta da creste, costoni, cime e pareti. Mentre che l' uomo delle grandi pianure rispecchia nel suo carattere l' infinità del suo mondo sconfinato, il montanaro deve la sua fermezza, la sua temperanza ed il suo raccoglimento alla ristrettezza della sua valle, ali' orizzonte limitato del suo mondo visivo, ali' isolamento reale dalle cosidette correnti civiliz-zatrici.

Tenendo presente questi fatti molto importanti, capiremo meglio, come l' estirpazione da un scenario conciso ed il susseguente spostamento in zone senza limiti deve comportare conseguenze disastrose. Solo pochi elementi, estirpati dal loro mondo nelT età già matura, sopportano il capovolgimento della struttura ambientale, senza gravi danni psichici. E solo pochi elementi persistono sulla via retta, quando si toglie loro la connessione naturale con la zolla natia. Tutti gli altri subiscono uno smantellamento dell' anima, subiscono la rottura di tutte le dighe morali. Le vili qualità paleopsichiche tra-volgono ogni ostacolo, distruggono ogni valore e calpestano ciò che finora fu legge sacra e eterna.

In base a queste riflessioni vidi l' uomo di Gardena laggiù nelle steppe russe, solo di fronte ali' impressionante spiegamento degli spazi, solo di fronte ad una vuota immensità. Lo vidi in vana ricerca d' uno scoglio di roccia per coprirsi le spalle contro nemici che irruppero dal nulla e ritornarono nel nulla. Vidi come si credette un fuscello sospinto dalla corrente alla deriva. E allora il povero montanaro perse l' anima, perse il senso di sé stesso. I pilastri, che fino a ieri ressero la sua personalità, crollarono. Cosa valse d' aver sfiorato la morte? Divenne retaggio dei suoi impulsi bestiali. Divenne un tarato atavico, un suggestionato in balia di una forza a lui sconosciuta.

Ritornato nella sua valle, non volle che dimenticare. Dimenticò abban-donandosi al peggiore di tutti i vizi: al bere. E quanti avranno fatto come lui, per non più vedere la realtà, per non più udire la voce del loro paese, che ammonisce, supplica ed insiste. Per quegli sciagurati i monti perdettero davvero le tinte forti d' una volta, diventando monti pallidi, diventando semplici contorni di un mondo senza contenuto. E mentre che anno per anno, estate per estate ed inverno per inverno, innumerevoli comitive pere-grinano lassù sui monti per sollevarsi dal fango delle miserie quotidiane e per dar seguito ali' aspirazione verso un mondo di superiore bellezza ed armonia, i diseredati di lassù rimangono — ad onta del paradiso che li circonda — impassibili, apatici ed ostinati.

Fra le assai numerose leggende delle Dolomiti vi è una che rispecchia a meraviglia questo stato di cose. E' la leggenda del selvaggio di Pontives che visse, come si dice, là dove una vasta frana di grosse pietre, caduta giù dalla Rasciesa, raggiunge carrozzabile che conduce da Ponte Gardena ad Ortisei.

Questo mostro che un giorno fu sposato da una bellissima donna in virtù ad una scommessa stravagante, non aveva mai portato altro abito che quello di una pelle di bue. Un giorno, per rendere ridicolo il marito davanti ai suoi amici, la moglie lo volle costringere ad indossare un bel vestito nuovo a colori. Per la prima volta il mostro s' oppose decisamente alla volontà della donna, esprimendo con difficoltà, che per gli esseri selvatici la più intima parte deh " animo era strettamente legata al vestito e che se egli avesse cambiato i suoi panni, avrebbe in certo modo rinunciato a sé stesso.

La donna, insistendo nella sua intenzione, gli strappò la giubba e la bruciò in cucina. Di fronte a questa sciagura l' uomo battè il petto con le grosse mani, lamentandosi ininterrottamente:

— Ah, se avessi ancora il mio vestito 1 Abbigliato soltanto dei suoi calzoni di cuoio, passava ora tutto il tempo nel bosco. Sedeva per intere giornate sopra un tronco d' albero, rimpiangendo il vestito perduto.

Un giorno due ragazzi l' incontrarono. Ascoltarono il suo lamento:

— Ah, se avessi ancora il mio vestito!

Decisero di fargli ciò che gli mancò. Fecero una giubba di pelle, non più grande di un palmo e gliela portarono nel bosco. Egli strinse la mano ai suoi piccoli benefattori e disse tutto contento:

— Grazie ragazzi, ora che ho di nuovo un vestito sono liberato! Detto questo, sali sulla montagna e scomparve fra le rocce della Rasciesa. Confrontando questa leggenda con ciò che dissi anteriormente, non si stenta trovare la stretta connessione fra U destino del selvaggio di Pontives e quello dell' ubriacone di Gardena. Meglio che da molti trattati scientifici si comprende come l' animo si compone non solamente di ciò che è dentro l' uomo, ma anche ciò che lo circonda. Con ogni persona o cosa che scompare dal mondo subiettivo si perde adeguata parte dell' animo stesso. E quando in una catastrofe si perde la parte migliore, non si può che restar soverchiato da sgomento. Non si trova la forza per rialzarsi, soprattutto quando si ha già toccato una certa età. Perché ciò che può rimettere l' anima, in generale l' ottimismo, la fede e la speranza, sono prerogative della gioventù. Anche lassù nelle Dolomiti la nuova generazione dovrà salvare l' animo della vecchia guardia, come i due ragazzi hanno salvato con una giubba minuscola quello del selvaggio di Pontives. Solamente la gioventù, che non vide gli orrori degli anni passati e che non s' accorse della bufera che sconvolse il mondo, potrà ancora credere in un' avvenire migliore.

Chiudendo la « Leggenda delle Rose », F. Wolff disse:

— Quando ali' ora del crepuscolo si vede apparire sulle cime e pareti l' enrosadira, gli abitanti della montagna escono dalle capanne e guardano e ammirano, e, per un attimo solo, sorge nelle loro menti una confusa intuizione del buon tempo passato, quando gli uomini non si odiavano né si ucci-devano e tutte le cose erano più belle e più buone.

E quando il giardino delle rose si spegne e le sue punte di pietra ridiven-tano chiare e fredde, gli uomini rientrano in silenzio, presi da indefinita tristezza, nelle loro capanne fumose.

A questo vorrei aggiungere:

Forse un giorno l' enrosadira non scomparirà più, annunciando con ciò l' inizio dell' era di giustizia, di libertà e di pace eterna.

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