Lastricato di storia | Club Alpino Svizzero CAS
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Lastricato di storia Un’escursione culturale al passo del Settimo

Un tempo, era un passo alpino di prima importanza; oggi interessa solo come via escursionistica. Ma attraversando il ­passo del Settimo, le tracce della storia sono onnipresenti.

Di nuovo un inatteso tratto pianeggiante. Un altopiano fiorito attraverso il quale si snoda un ruscello dall’acqua cristallina. Poi si ricomincia a salire. Lunghezza dei passi e ritmo della respirazione sono di nuovo sincroni, gli occhi puntano alternativamente sul sentiero pietroso e sulla linea dell’orizzonte. Laggiù cercano il punto più basso tra gli erti fianchi delle montagne: il luogo in cui da entrambi i ver­santi c’è solo discesa.

Il fatto che i 500 metri di dislivello del passo del Settimo non facciano man bassa delle nostre ultime forze ha una ragione obiettiva e una soggettiva. Da un canto, il terreno sale molto dolcemente; dall’altro, l’idea di trovarsi a tu per tu con due millenni di storia dei trasporti mette le ali ai piedi. Le prime tracce si incontrano già poco dopo Bivio: evidenti avvallamenti nel profilo del paesaggio che salgono parallelamente al sentiero escursionistico marcato. Si tratta di antichi ­tratti di strada sui quali è letteralmente cresciuta l’erba. Varianti fossili della strada del Settimo, che durante il Medioevo si annoverava tra i passaggi più frequentati tra il nord e il sud dell’Europa.

Più soli che mai

Provenendo dal lago di Costanza, qui si attraversava la cresta principale delle Alpi in direzione di Milano, Genova o Venezia. A piedi, ovviamente. Chi aveva con sé molti bagagli si portava appresso un animale da soma. E coloro che erano seguiti da molti di loro erano spedizionieri di professione: mulattieri. Sul dorso degli animali venivano allora fissati dei contenitori simili a botti, riempiti di formaggio e altre mercanzie. Che l’importanza della tratta attraverso i Grigioni andasse oltre quella regionale è attestato da documenti risalenti all’Alto Medioevo, che indicano l’esistenza di un ospizio del passo. Costruito attorno al 1100 per incarico del vescovo di Coira, Wido, mulattieri, pellegrini e viaggiatori vi trovavano ristoro quando si ritrovavano sfiniti dopo l’estenuante salita lungo la Bregaglia oppure improvvisamente sorpresi da una nevicata – che su uno spartiacque a 2300 metri di quota non è da escludere neppure d’estate.

Oggigiorno, quassù si è del tutto soli. Del complesso di edifici medievale non rimangono più neppure delle rovine. Il vento sibila attraverso l’apertura a «V» tra i ripidi pendii detritici, e del salvifico fondovalle della Bregaglia ­assolutamente nulla traspare. Al suo posto, solo massicci montani selvaggiamente frastagliati e una buia gola nella quale chi intende compiere la discesa a meridione si dovrà forzatamente immergere. Non un’anima viva, a perdita d’occhio. La som­mità del passo è diventata un luogo dimenticato da Dio, come nei tempi passati non lo era neppure d’inverno.

Alla fine del XIV secolo, la strada «alta», quella che passava per il Settimo, era all’apice del suo successo. Poco tempo ­prima era infatti stata ampliata nella sua forma ancora oggi visibile dal bregalino Jakob von Castelmur. E non senza motivo: lungo la sua principale tratta concorrente, quella del Gottardo, covavano infatti i conflitti tra Confederati e Milano. E siccome le situazioni politiche poco chiare sono veleno per i traffici commerciali, i commercianti milanesi avevano cominciato a prediligere i passi grigionesi, in particolare il Settimo, che sottostava interamente al vescovo di Coira.

Grazie alle donazioni elargite dall’imperatore tedesco, la diocesi era assurta a un’invidiabile posizione di potere, altamente vantaggiosa anche in relazione al trasporto di merci. L’omogeneità territoriale rappresentava così un importante atout in quanto non era necessario pagare dogana a ogni ­svolta della strada.

Lontano dal traffico

Nel primo XIX secolo, con la costruzione della strada del passo del Giulia, il passo del Settimo perse la sua importanza. Un fatto che l’escursionista culturale di oggi può soltanto apprezzare. Poiché da allora i flussi del traffico scorrevano altrove, l’antica mulattiera si è conservata in molti luoghi nel suo stato originale – anche e proprio nella profondamente incassata Val Bregaglia. Qui occorreva superare alcuni punti particolarmente ripidi, il che obbligò i moderni ingegneri a realizzare ampie serpentine. Prevista solo per bipedi e quadrupedi, l’antica Via Castelmur si ­poteva permettere una pendenza di gran lunga maggiore. Anche nella parte inferiore della valle, già in territorio italiano, la cosiddetta «Strecia» è in numerosi punti ancora intatta e orlata di muri a secco ad altezza d’uomo, che ­separavano l’arteria di traffico dai pascoli e dai terrazzamenti coltivati.

Assolutamente medievale?

Ancora conservati sono inoltre molti altri manufatti strettamente connessi con il traffico di transito: ad esempio gli opulenti magazzini di Promontogno, Spino e Borgonuovo, o l’opera difensiva tardoantica detta «Müraia», che separava la Bregaglia alta dalla bassa. Proprio in questa strettoia ­sorge il vero e proprio simbolo della Val Bregaglia, la torre di guardia di Promontogno, presso la quale l’Itinerario antonino cita una «mutatio», una stazione di sosta e cambio di cavalli.

La gita sulle tracce dei mulattieri si conclude con un’altra gradevole sorpresa: senza dover prima incrociare circonvallazioni o attraversare orribili nuovi quartieri, la strada conduce direttamente nel cuore di Chiavenna – un nucleo storico davvero degno di essere visitato, che si offre con la coerenza architettonica che gli venne conferita dopo l’incendio che devastò la città alla fine del XVI secolo.

Il suo punto centrale è la grandiosa Piazza Pestalozzi. Assolutamente medievale, si potrebbe pensare. In realtà, la ­piazza risale solo al XIX secolo, come risposta urbanistica a un ­grosso problema di traffico: dopo la costruzione delle strade commerciali attraverso lo Spluga e il Giulia, il traffico di transito era aumentato a tal punto che, per far posto alla moltitudine di carri e diligenze che transitavano per il loro incrocio nell’abitato, fu necessario radere al suolo un intero quartiere di abitazioni.

Chi si siede in uno dei soleggiati caffè della via, si ritrova per la prima volta nel qui e ora. Qua e là, tuttavia, i pensieri tornano alla ventosa sommità del passo, dove ancora si calpestava neve vecchia e c’era solo il contenuto dello zaino. ­Quanto tempo è passato? Due settimane? No, solo due giorni. Incredibile!

La sera paghiamo ovviamente il prezzo della vivacità di Chiavenna. Qui, prima della mezzanotte nessuno sembra aver voglia di tranquillità. Così si rimane svegli, si guarda la coperta e si ripercorre una volta ancora con il pensiero l’intera tratta. Poi, il mondo scivola via, e il marciatore sprofonda in quel sonno senza sogni che il suo più confortevole modo di viaggiare di certo non gli nega.

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