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Passeggiata alla Feuillet Una via dimenticata del Salève

Aperta verso il 1870, la via del Feuillet è una vecchia classica della «montagna dei ginevrini». Grande conoscitore del Salève, l’arrampicatore Bernard Wietlisbach ce l’ha fatta conoscere.

È il mese di giugno, ma ai piedi della fessura della Feuillet, ad accoglierci è un vento fresco, uscito dal cuore calcareo del Salève. Aperta nel 1870 e citata per la prima volta in una guida del 1928, questa via pittoresca e un tempo popolare tra i ginevrini è quasi sparita dai ricordi. «La Feuillet si fa forse dieci volte l’anno», butta lì Bernard Wietlisbach, che ci ha guidati attraverso un labirinto vegetale per raggiungere l’attacco di questa grande lama. Proprietario di un negozio di articoli da montagna a Ginevra, arrampicatore e alpinista emerito, conosce il Salève come le sue tasche. È anche autore di una guida sulla montagna, vera e propria bibbia delle vie e dei settori di questo massiccio, che include anche i suoi sentieri più selvaggi.

Un secolo di storia della scalata

Come in tutte le vie storiche del Salève, percorrendo la ­Feuillet si incontrano chiodi arrugginiti che raccontano un secolo di scalate. Questi ferri vecchi si accompagnano ad attrezzature più recenti, posate da amanti dei luoghi. I nomi degli «attrezzatori» che hanno fatto il Salève, come quello di Henry Briquet, libraio ginevrino che ha firmato di proprio pugno decine di vie negli anni 1960 e 1970, sono pronunciati con amicizia. «Nel XIX secolo, gli scalatori facevano un buco nella roccia con punta e martello, poi vi sigillavano i ferri con del cemento o del piombo», racconta la nostra guida. «Erano gli unici ancoraggi. Altrimenti, la gente si assicurava ad alberi o spuntoncini. Allora, la Feuillet la si arrampicava con una corda legata in vita, e la sfida consisteva nel ridiscenderlo senza doversi calare in corda doppia.»

Muschio e prese patinate

Progrediamo senza difficoltà lungo la scaglia, quotata 4+, qua e là aerea, che offre ben presto una vista splendida su Ginevra e il suo lago. Alla sommità della via, orientata a nord-ovest, la nostra squadra sbocca in un canyon boschivo, il cui suolo cedevole ammortizza e inghiotte le pietre che precipitano dalle cenge sovrastanti. Muschio, pini, bossi, noccioli, ciuffi d’erba, burroni e prese patinate: ecco il Salève in tutto il suo splendore. Ed è proprio a causa di questi elementi che gli arrampicatori moderni hanno gradualmente disertato queste falesie: «È un terreno di montagna», ricorda il proprietario del negozio Cactus, «se si viene qui, bisogna accettare di fare della scalata sportiva, ma con tratti di roccia cattiva e d’erba.»

«Varappe» contro scalata sportiva

Bernard Wietlisbach stima che il Salève abbia cominciato a perdere la sua attrattività presso i nuovi arrampicatori a partire dagli anni 1990. La causa? «Il trapano», afferma che nella regione ha consentito l’apertura di pareti omogenee per difficoltà e attrezzate con un massimo di sicurezza. «Da allora, lo standard di questo massiccio ha cominciato a non essere più apprezzato. Le vie sono eterogenee, e di tanto in tanto bisogna affidarsi al chiodo per superare un passo difficile. È uno stile che non si adatta a coloro che arrampicano in palestra», riassume l’alpinista.

Scalatore, fotografo e apritore in ambito agonistico, Elie ­Chevieux parla la medesima lingua. «In tutto, oggi, la gente che pratica l’arrampicata è dieci volte di più che non negli anni 1990. Prima, la totalità degli arrampicatori praticava la varappe nel Salève (n.d.t.: il termine varappe, arrampicata, deriva tra l’altro dal settore ‹Varappes› del Salève). Oggi solo una piccola parte di loro frequenta ancora il massiccio.» Il ginevrino, specialista mondiale ai tempi delle percorrenze a vista delle vie di altissimo livello, sorride citando «arrampicatori capaci di passare un 7 in palestra, ma che fallirebbero su un 5c/6a nel Salève».

Fessure in movimento

Sopra il canyon che segna la fine del Feuillet, l’ascensione prosegue passando per il Mertzli, un bel muro di grado 4, variante di un’altra via storica, la Nationale, il cui attacco è stato rovinato da una frana nel 2014. «Occorrerà una decina d’anni perché si assesti», osserva Bernard Wietlisbach, che verifica ogni anno l’apertura delle fessure in diversi punti del massiccio, soprattutto nella via della Grande Arête: «Se la distanza è regolare, va bene», commenta bonariamente. Più in alto camminiamo lungo una cresta alberata che passa sotto una parete ingiallita, quella del Lamin. «Ora faremo un po’ di scalata», ride Bernard Wietlisbach, che ci introduce a una bella via in 5c, la «S» Clafoutis, dalla cui sommità la via spazia sul bacino ginevrino.

Lo scalatore, che ha percorso vie difficili nel massiccio del Monte Bianco, nello Yosemite e nell’Himalaya, cammina a passo lesto tra l’erba alta, seguendo un sentiero appena visibile, tipico del Salève. L’attenzione deve essere assoluta, poiché sotto c’è il Lamin, con i suoi 60 metri di vuoto.

Il ritorno a basso si svolge in una successione di passaggi pittoreschi: il Portail du Sphinx, il Dévaloir de la Mule, il Cirque des Etournelles e, per finire, il Sentier d’Orjobet – tutti nomi attribuiti dal Club Alpino Svizzero facendo riferimento a un contadino del massiccio che aveva accompagnato Horace-Bénédicte de Saussure per questa montagna ricca di storia.

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