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Rischiare per conquistare la vita Il racconto di un’esperienza in montagna

Per alcuni, la passeggiata attorno al Cervino è già sufficientemente entusiasmante; altri scalano montagne il più possibile alte o isolate. Ma qualcosa accomuna tutti: la ricerca di un’intensa sensazione vitale.

Tutto d’un tratto ne fummo consapevoli con la massima chiarezza: eravamo soli. Due persone su una montagna lontana nella solitudine dell’Alaska, lontane dalla civiltà, nell’incommensurabilmente grande massiccio delle Wrangell Mountains. Il piccolo aereo pilotato dal nostro amico Paul Claus, era gradualmente svanito assieme al suo rumore nel cielo estivo sempre chiaro delle latitudini settentrionali. Ora eravamo lasciati a noi stessi. Per cinque giorni, così avevamo concordato con Paul. Cinque giorni nei quali un incidente avrebbe potuto significare il disastro. Paura paralizzante: e se uno di noi dovesse precipitare in un crepaccio nel labirinto gelato del possente Mount Blackburn (4996 m)? Se si dovesse ferire gravemente – ad esempio ustionandosi mentre cucina o procurandosi una frattura aperta in seguito a una caduta – oppure essere vittima di un edema d’alta quota? Non avremmo avuto alcuna possibilità di stabilire un contatto radio e richiedere il soccorso. Nella buona e nella cattiva sorte eravamo ormai alla mercé di un destino che potevamo solo auspicare benigno – e questo, di nostra spontanea volontà.

Fortunatamente, per la paura non rimane molto tempo. Iniziamo subito la salita al primo, e al tempo stesso ultimo, campo intermedio a 2800 metri di altitudine. È un’autentica faticaccia: il sole splende imperterrito su di noi che, con gli sci, i pesanti zaini e le slitte cariche di tenda, fornello e provviste, superiamo imprecando il pendio disseminato di crepacci, che offre l’accesso a un eccezionale palco panoramico. Qui montiamo la nostra piccola tenda, proteggendola dal famigerato vento che può soffiare a sorpresa sulle montagne dell’Alaska con spessi muri di neve. Cominciamo subito a fondere la neve e a bollire l’acqua. Non farà notte: siamo a inizio estate, e a queste latitudini in questa stagione non diventa mai buio. Lo sguardo corre sull’immensa superficie gelata del ghiacciaio Nabesna, estesa in lunghezza e larghezza per decine di chilometri. Da qualche parte, alla sua estremità, vivono un paio di persone. Ma a piedi distano almeno una settimana. In me fa ritorno la quiete. La mia paura si scioglie in un’intensa sensazione vitale.

Come potrei spiegare oggi perché, ormai ben presto 20 anni or sono, ci siamo isolati in due soli su una solitaria montagna dell’Alaska, esponendoci in tal modo a un rischio a dir poco maggiore? Indubbiamente non solo per il fatto di poter poi dire che ne avevamo raggiunto la vetta, anche se al momento di partire questa era la nostra speranza. Di certo, però, ci eravamo anche messi consapevolmente in quella situazione poiché eravamo alla ricerca di quell’insuperabile sensazione di essere vivi che suscita fenomeni di nostalgia in numerosi alpinisti. Sono momenti nei quali siamo assorbiti dall’azione e ci vediamo al tempo stesso in tutta la nostra vulnerabilità e caducità. Volevamo vivere da noi il maggior numero possibile di secondi, minuti e ore di equilibrio e di quella particolare armonia che avremmo successivamente potuto riversare nel quotidiano. Quei momenti compiuti, chiari, nei quali ci muoviamo senza alcuna distrazione lungo il sottile confine tra concentrazione e paura. Qui, la vita è incredibilmente intensa, densa; corpo, mente e spirito sono in sintonia, concentrati su questo momento unico, accompagnato dalla massima vigilanza e presenza di spirito. E così era anche allora sul Mount Blackburn: ho sperimentato e vissuto consapevolmente l’attimo con ogni fibra del mio essere.

Dopo una notte tempestosa lasciamo il nostro campo solo nel tardo pomeriggio del giorno successivo. La destinazione è la vetta. «It’s a long, long way», ci aveva detto Paul al momento di accomiatarci. Probabilmente sentiva che intendevamo suddividere l’escursione di più giorni in sole due tappe. Le sue parole sulla lunghezza della via mi hanno accompagnato durante 13 ore, 13 infinite ore durante le quali abbiamo salito – e quindi anche ridisceso – i 2200 metri di dislivello che ci separavano dalla vetta. Dopo i primi, ripidi e impegnativi 1000 metri di salita raggiungiamo un’ampia cresta, pur disseminata di crepacci, porta dolcemente alla cima. Verso le 11 il sole tramonta, ma il buio non arriva: è solo penombra. Sotto di noi il vessillo di fumo del Mount Wrangell, un vulcano gelato, le vallate avvolte nell’ombra e le luccicanti nevi del ghiacciaio. Un’atmosfera magica… Verso mezzanotte eccoci in vetta. Stanchi, assetati; consapevoli della lunga discesa che ci aspetta. I miei pensieri sono piuttosto confusi. Una citazione di Reinhard Karl mi attraversa la mente: «La vetta: si è lassù, a pezzi, la difficile discesa attende. A valle: dopo i molti sforzi, la prima birra ti ruba la coscienza. Ma quei momenti di pace, la sensazione di avercela fatta, di essere lassù – per un momento ti sembra di afferrare la felicità. Il desiderio è esaudito, ma ancora non è passato.»

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