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Sul fiume gelato La magia del freddo

D’estate, il Ladakh brulica di amanti del trekking. D’inverno il «piccolo Tibet» è quasi deserto. Ciò malgrado, tre svizzeri si sono spinti lungo il corso gelato del fiume Zanskar. Non solo il freddo ha tolto loro la parola.

All’inizio c’era il colpo perfetto. Il fotografo Martin Bissig lo aveva davanti agli occhi: il fiume gelato passa serpeggiando attraverso una gola, dalle pareti pendono enormi denti di ghiaccio. Nel ghiaccio luccicante di azzurro si specchiano i raggi del sole. Davanti, un ciclista in giacca arancione sul ghiaccio. Un’atmosfera surreale, come di un altro mondo.

Così Martin Bissig immaginava la fotografia che voleva realizzare durante il trekking sul fiume Zanskar gelato. Non da ultimo per questa ragione si lanciò assieme a due colleghi nell’avventuroso viaggio nel Ladakh, una regione dell’India settentrionale – nel bel mezzo dell’inverno, con un freddo pungente e temperature di meno 25 gradi. Ciò che hanno vissuto va al di là della loro immaginazione. «È stato il viaggio più freddo, ma anche il più impressionante della mia vita sinora», sottolinea Bissig. E lo dimostra. Anche a mesi dal viaggio, il suo volto è radioso e gli occhi brillano quando racconta l’avventura. «Si vive il paese da un lato del tutto diverso», dice poi riflessivo.

Vuole significare qualcosa. Il Ladakh, spesso chiamato anche «piccolo Tibet», Bissig lo conosce nel frattempo quasi quanto la Svizzera. Nel corso degli ultimi anni ha percorso questa regione dell’India innumerevoli volte, in bicicletta, a piedi e con gli sci. E sempre con la sua macchina fotografica. È entusiasmato dal paesaggio, dalle gigantesche montagne himalayane, dalla gente e dagli edifici del vecchio regno buddista. Durante uno di questi viaggi ebbe modo di conoscere Tundup, che per primo gli instillò l’idea dell’avventura invernale. «Mi raccontava sempre con entusiasmo del fiume gelato e degli impressionanti paesaggi di ghiaccio», ricorda Bissig.

 

Una Leh assopita

A febbraio il tempo era maturo per fare lo zaino, ed ecco gli svizzeri sull’aereo per la città di Leh, punto di partenza dell’escursione di nove giorni. Mentre durante l’estate i turisti affollano a sciami il capoluogo della regione, d’inverno Leh è come morta. La maggior parte dei negozi è chiusa, i ristoranti pure. Un unico albergo riscalda le proprie camere. In esso, Bissig e i suoi compagni discutono il percorso. La meta è il piccolo villaggio di Chilling, nella valle dello Zanskar.

Il primo piede sul ghiaccio lo mettono il giorno successivo a 80 chilometri da Leh. Nel frattempo sono diventati una squadra di otto persone. I portatori trasportano bagagli e provviste su slitte al traino. In testa al gruppo Tundup individua la via. Batte il suo bastone sul ghiaccio, ne verifica lo spessore. Bissig impara rapidamente la regola più importante: il centro del fiume è «bad and dangerous». E: il tempo caldo è cattivo tempo. Non appena il sole splende e le temperature puntano verso l’alto, l’acqua di fusione comincia a scorrere sopra la superficie di ghiaccio, a volte alta fino alle ginocchia. Qui, con i loro stivali di gomma, gli autoctoni superano di gran lunga gli svizzeri. «Si potevano semplicemente togliere le scarpe e vuotarle dell’acqua gelata», racconta sorridendo Bissig. Una volta bagnate, le calzature hi-tech richiedevano giorni per asciugare. Per fortuna, la situazione e il tempo sul fiume mutavano costantemente. Se qui è ancora umido, dopo la curva successiva ecco apparire una stretta gola ombreggiata. Il ghiaccio è spesso un metro, non si vede il greto del fiume. Massicce lastre di ghiaccio torreggiano su pietre immerse nel fiume. A parte alcuni indigeni che il gruppo incontra, la piccola carovana è padrona del luogo.

 

Freddo pungente

La sera allestiscono il campo in riva al fiume. La prima a essere eretta è sempre la tenda della cucina. Con una tazza di tè caldo in mano, passano in rivista la giornata, raccontano quanto hanno vissuto, ridono. Ben presto, il profumo di cipolla tostata e dei freschi chapati si mescola ai gas della stufa a benzina. Poi è l’ora di dormire. Diretto alla sua tenda, Bissig rivolge un’occhiata al cielo. «Ho visto raramente un mare di stelle altrettanto chiaro e luminoso», racconta. Molto meno romantico è il mattino successivo. Freddo pungente, meno 25 gradi. L’aria espirata gela immediatamente. Le calze umide del giorno precedente sono congelate. Strisciare fuori dal caldo sacco a pelo è tutt’altro che facile. «Ma in fin dei conti è tutta una questione di testa e di disposizione. Che facesse freddo lo sapevamo già, per cui potevamo benissimo adattarci», commenta Bissig. E poco dopo aver ripreso il cammino, il freddo è comunque quasi dimenticato. Gli svizzeri sono incantati dalla bellezza, dai canyon alti metri e metri, e da quel magico paesaggio di ghiaccio. Alla fine, tra l’altro, Bissig è riuscito a scattare la sua foto quasi come l’aveva immaginata – e molte altre ancora.

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