L’alta montagna del Sichuan | Club Alpino Svizzero CAS
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L’alta montagna del Sichuan In cinque giorni sul Chola Shan (6168 m)

Il Chola Shan è una delle vette più popolari della provincia cinese del Sichuan. A dispetto della sua moderata difficoltà, affrontarla da soli non è consigliabile.

Una montagna che corrisponde esattamente ai nostri desideri: sferzato dal vento, avvolto in veli di nebbia e rivestita da uno spesso strato di brina, il Chola Shan si erge in una distesa di temibili ghiacciai, denti rocciosi e picchi, molti dei quali non sono ancora stati scalati. Ad esempio il Monte Polujab (5816 m): distante solo pochi chilometri, sull’altro lato del Chola Shan Pass, questa cima particolarmente bella ancora attende la sua prima.

Per noi, il Chola Shan si situa nell’ambito di un progetto un po’ folle: la coniugazione di ciclismo e alpinismo. Durante un viaggio attraverso la Mongolia, il Kazakistan, la Cina e il Sud-est asiatico volevamo scalare alte vette quasi direttamente dalla bici. Dopo un successo in Mongolia (Khuiten Uul) e dei fiaschi in Kazakistan (Belucha) e Cina (Amnye Machen), il bilancio era di uno a due: un po’ deludente, se si pensa ai chili supplementari del materiale da scalata che ci stavamo portando appresso.

Sotto la tenda in lana di yak

L’obiettivo primario era tuttavia quello di «sperimentare» la cultura dei paesi visitati dal sellino della bicicletta. In Cina, la scelta era caduta sulle province di Qinghai e dello Sichuan, poiché qui, a quanto si dice, la cultura tibetana è vissuta in maniera ancora più libera e aperta che non nello stesso Tibet. E in effetti, lungo la strada da Xining per l’altopiano orientale, tibetano, i monasteri buddisti sono numerosi. Gli accampamenti militari e i posti di controllo sono pochi e l’influenza cinese si osserva soprattutto nei grandi progetti stradali e nelle diffuse case in plastica pseudotibetane.

Gli autoctoni ispezionano i nostri veicoli, alcuni ci invitano nelle loro tradizionali tende in lana di yak. L’arredamento è spartano: un altare buddista, un fornello, materassi e coperte di lana arrotolati. Per proteggersi dalla pioggia, un telone di plastica teso sotto il tessuto della nera parete della tenda. Dopo una porzione di tsampa, una rinvigorente pappa a base di orzo e burro di yak, ci infiliamo nei sacchi a pelo con temperature al di sotto dello zero.

Nell’angolo più nord-orientale del Sichuan sorge il monastero di Sershu Dzong con i suoi numerosi templi, un centro di formazione buddista (shedra) e centinaia di monaci perlopiù giovani. I credenti girano attorno all’imponente impianto monastico lungo un percorso rituale (kora). Siamo i soli turisti occidentali nella locanda propria del monastero, e veniamo invitati a partecipare alla kora. Il percorso sale sulla collina passando per stupa, mulini da preghiera, templi grandi e piccoli. Molti tibetani portano con sé dei mulini da preghiera a mano che sono costantemente tenuti in movimento. Dal tempio più alto, dal quale si ammira la vallata solitaria, risuona una voce profonda. Alcuni pellegrini si radunano sul prato antistante con ombrelloni e spuntini. Un gruppo ci invita a raggiungerlo con gesti delle mani. Momenti di quiete prima di rimettersi in sella.

Una minima possibilità di successo

260 chilometri a sudest del monastero, alla biforcazione per il Chola Shan Pass, alto 5050 metri, sorge il piccolo villaggio di Manigango. È circondato da innumerevoli stupa e dalla cima della vicina collina luccicano i tetti dorati di un tempio. Proprio dietro il villaggio si estende la riserva naturale dello Xinluhai e, da qualche parte tra le nubi, si ergono i 6168 metri del Chola Shan. Grazie alla topografia di Google Maps e alle poche indicazioni fornite dal censurato internet cinese, calcoliamo una seppur minima possibilità di successo. Non disponiamo di ricetrasmittenti, di alcun aiutante nella valle e solo di una piccola tenda da tre stagioni. Nonostante la nostra grande esperienza di alpinisti, è chiaro che anche la più piccola incertezza può significare solo il dietro front. L’unica ancora di salvezza: all’albergo preghiamo una tibetana di dare eventualmente l’allarme dopo sei giorni.

All’ingresso del parcheggio, però, ci attende una grande sorpresa: un gruppo di alpinisti tibetani e cinesi mostra interesse per noi: «Where you go?» «We try to climb Chola Shan», rispondiamo. Una guida tibetana racconta di essere appena rientrato dalla vetta e che un altro gruppo sarebbe appena partito dal campo base per raggiungere il primo campo in quota. Ogni campo sarebbe equipaggiato con tende fisse e il percorso indicato da bandierine. E non finisce qui: quelli della Sichuan-Tibetan Expeditions provano simpatia per noi svizzeri strambi e ci mettono a disposizione la loro tenda. Ci danno anche due numeri telefonici per il caso in cui sulla montagna avessimo bisogno di cibo o di aiuto. Senza aver nulla pianificato, ci troviamo sulla montagna dei nostri desideri proprio durante le festività del capodanno cinese. Una fortuna inaudita!

Praticamente impossibile senza supporto

Il percorso costeggia dapprima il lago Xinluhai e porta proprio ai piedi del Chola Shan. La via è orlata da rocce dipinte e incise con preghiere e testi sacri buddisti, le cosiddette «pietre mani». E alla vista dell’imponente e ripido massiccio granitico che sorge all’estremità del lago, un po’ di assistenza spirituale non sembra per niente inopportuna. Lungo un buon sentiero si passa per il campo base e quindi, per un ripido pendio di erba e detriti, si arriva al primo campo in quota. L’ultimo gruppo in salita della Sichuan-Tibetan Expeditions ci accoglie con cordialità.

Il giorno successivo, essendo ormai ottimamente acclimatati, saliamo all’ultimo campo in quota, sito a 5650 metri. Le difficoltà sono moderate, ma sotto l’ultimo campo è necessario superare un grande crepaccio – che, grazie alle corde a disposizione, non richiede però troppo tempo. Il giorno della vetta fa freddo, c’è vento e c’è nebbia. La vecchia traccia, innevata e appena visibile, obbliga a un faticoso lavoro di tracciatura. Dopo ore con soli pochi metri di visibilità e senza segni riconoscibili che consentano di immaginare una rapida fine della faticaccia ecco improvvisamente emergere le corde fisse della parete di ghiaccio della vetta. Bene assicurati e grazie a brevi schiarite assaporiamo gli ultimi metri e comprendiamo: senza il supporto di una grande spedizione, su quella vetta non saremmo mai arrivati.

«Non toccare politica e religione»

Intervista con Su La Wang Ping di Sichuan-Tibetan Expeditions

René Rüegg: Come reagisce la popo­lazione locale alle vostre spedizioni di arrampicate e trekking?

Su La Wang Ping: La gente ci sostiene. Quando lavorano per noi o ci noleggiano dei cavalli beneficiano delle spedizioni. Le nostre guide e i nostri portatori provengono dalle regioni tibetane della provincia del Sichuan.

RR: E gli ospiti, da dove vengono?

SLWP: Da diverse regioni della Cina.

RR: Rispetto ad altre regioni, nel Sichuan gli scalatori privati devono attenersi a regole di comportamento particolari?

SLWP: Semplicemente non dobbiamo toccare la politica e la religione. Per il resto, la popolazione locale è molto cordiale.

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