Lettera ad un lontano | Club Alpino Svizzero CAS
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Lettera ad un lontano

Hinweis: Questo articolo è disponibile in un'unica lingua. In passato, gli annuari non venivano tradotti.

Di Guido Ferrazzini.

Piero carissimo, La tua lettera di alcuni anni fa che affidasti alle pagine delle « Alpi » e nella quale mi contavi una tua fortunosa escursione al Dammastock, riceve ora una ben tardiva ed indegna risposta.

Parlarti di sci, di neve e di frescure, ora che primavera ha infiorato i dossi dei nostri monti, traendo anche dal più folto dei cespugli e dai più oscuri ed umidi valloni sterposi ondate di profumi, odor acre di terra viva, tremore di vapori molli carichi di germi fecondatori, ti parrà ch' io voglia far rivivere cose ben morte ed oramai sorpassate dal prorompere di nuove forze attivamente ricostruttrici.

Eppure, vuoi credere che, anche in mezzo a tanto spettacoloso risveglio della natura, malgrado l' invadente accelerarsi del suo ritmo creativo, il pensiero si volge spesso con nostalgia, con rimpianto, quasi, al grigiore dei mesi scorsi, alle bianche distese aprentesi benevoli allo slancio della nostra passione, all' impazienza della nostra avidità d' ascesa e di conquista. Come raccontarti, col poco aiuto che mi danno le mie disadorne parole, quanto godetti, o meglio, quanto godemmo ( poichè le mie sensazioni sono, non fa dubbio, patrimonio comune di quanti formarono le nostre brigate ) quest' in?

Novembre e dicembre delusero alquanto per la loro avara distribuzione di neve; luccicavano appena le più alte cime del nostro anfiteatro montano e pareva che quel cappuccio, già spesso in alto, ostinatamente non volesse abbassarsi ad ammantare i più bassi pascoli, offrendoli, poi, lisci e candidi alla coorte di quanti aspettavano impazienti. In quei mesi trovai pur anche il modo di ricalcare la via de monti e, godendo la fedele compagnia di un caro amico, non mi spaventai dei sorrisetti ironici di chi mi vedeva partire cogli sci in ispalla, ben sapendo che alla noia del trascinarli su per gli erti fianchi avrebbero fatto seguito ore beate d' esercizi, di scivolate e scivoloni, di corse ed, anche, di bruschi, involontari arresti privi d' ogni stile. Allora il sole portava ancora seco, nella quiete attonita delle remote conche nevose, qualche reminiscenza dell' autunno e mandava su dai piani ancora verdi, dai boschi appena spogliatisi all' urto dei primi venti freddi un alito tepido, come il largo ansimare degli esseri e delle cose appena buttatisi al riposo dopo faticose giornate, e più forte era il contrasto fra il soffice biancore eh' era a noi d' attorno ed il vellutato degradare azzurrino del cielo verso i riposanti profili delle montagne sottocenerine, verso il largo corridoio di Mendrisio, verso la appena intravveduta grande pianura. In fondo, quasi irreale, come sospesa sull' ultimo e più luminoso lembo di cielo, quasi confusa con esso, la fascia degli Appennini.

Poi tornarono a chiamarci con rinnovato stimolo le miti forme di Condra, ingioiellatesi esse pure di sorpresa e furtivamente in una notte di gennaio, sorridendo al nostro sguardo che più e più volte si era ansiosamente spinto ad indagare verso settentrione. E qui si rinnovò l' assalto, ma decuplicato, degli anni scorsi, si risvegliarono nei boschi gli echi delle risate e delle allegre canzoni, mentre le tôrte, seriche, bianche betulle spinte a squadroni alla conquista del monte guardavano, non più curiosamente ma con sorridente ammiccare, l' irruente propagarsi fra le loro tacite file di questi freschi, vivi entusiasmi; desideri maturati per settimane e mesi nel chiuso delle vie cittadine, degli uffici e delle aule scolastiche ed ora prorompenti nell' esplosivo esternarsi di una gioia finalmente ritrovata.

Ti dirò, caro Piero, di una mattina che non lasciava sperare in una buona giornata; un po' di neve aveva trovato modo, nella notte, fra uno scroscio pioggia e l' altro, d' imbiancare svogliatamente e fragilmente anche i tetti Lugano. Sopra, un cielo scuro e greve, basse cortine di nebbie parevano decise ad immusonirsi nel loro ostinato modo di avvolgere ogni cosa in istrette fasce. Da Tesserete si poteva bensì vagamente scorgere qualche bagliore infiammare le cime del Baro e dei Gradiccioli, ma lento, lento era lo scivolare sornione di quei larghi strati di caligine vaporosa. Eppure il bosco, direi quasi il « nostro » bosco, tante volte lo percorremmo, ci venne incontro colla sorpresa della sua trasformazione.Viali soffici; vôlte di fragili merletti fascianti il disperato brancicare dei nudi castani; null' altro che un delicato tessuto di mille perfetti disegni, chiarore diafano fra l' incanto dei drappeggi ariosi tesi fra ramo e ramo, avvolti ai tronchi, stesi sulle sterpaie, sui rovi e sul sassoso sentiero. Sembrava di camminare in un paesaggio fatato, d' essersi vuotati d' ogni peso materiale, tanto forte era l' impressione di quel delicato sbizzarrirsi inventivo dell' incognito decoratore. Più su l' accogliente allargarsi del pianoro di Condra, lindo e fresco, ci riservava uno spettacolo magnifico. Un pazzo cavalcar di nebbie, spazzate da un vento imperioso, sbaragliate nella loro faticosa difesa, dava luogo a paesaggi quasi irreali, ad improvvisi colpi di scena; esse s' attoreigliavano in mille forme, offendosi ai giuochi colorati del sole, si sfilacciavano pigramente, s' attaccavano disperatamente ai rami degli alberi pur di non cedere il campo, lasciandosi, poi, finalmente stanche, cacciare a colmare le conche di Lugano e d' Agno, offrendoci lo spettacolo di una larga distesa di candide onde irrequiete e adagiandosi, soffice piedestallo ai monti iridescenti, come fossero improvvisamente riapparsi gli immensi tentacoli dei ghiacciai millenari.

E così come quel giorno, più volte tutto il sole fu nostro, incontrastato il cielo luminoso ai nostri occhi avidi, prodiga la luce di benefizi salutari, ci furono amici i pascoli ondulosi, sui quali trovarono sfogo le nostre voglie maturate fra una domenica e l' altra, nell' aspetto mutevole delle ore troppo brevi. Non sempre, è vero, il sole ci rallegrò della sua presenza, ma anche sotto un cielo grigio, davanti ad un orizzonte limitato il ritmo dell' allegria e della contentezza consuete non scemò; riunioni cordiali di tanta gioventù, amicizie che son più franche e più sincere perchè strette in momenti in cui mal-umori e dispetti erano stati abbandonati al piano e non gravavano più sui nostri pensieri.

Eccoti in poche linee una piccolissima parte, una povera idea di quanto l' inverno scorso recò a noi. Potrei dilungarmi a raccontarti quante volte ci accolsero Rodi, Dalpe, Nante, Airolo, il Passo dell' Uomo, il Lucomagno, portarti meco a scorazzare in queste magnifiche regioni, potrei pregare Cech e Fredy di aggiungere loro quali luminosi ricordi raccolsero in Val Bedretto ed al Blindenhorn, ma son convinto che non basterebbe un numero intero della nostra rivista. Il mio pensiero si volge spesso all' arcuata riviera savonese che t' accoglie e quante volte avrei voluto sentirti al fianco, te che tanto hai fatto perchè io amassi la montagna e m' insegnasti a guardarla cogli occhi della passione e del desiderio, a cercare la sua essenza purificatrice nello slancio sincero delle sue linee e nelle sue virtù vivificatrici. Ed ora a noi, della seconda schiera spinta sulle orme dei nostri anziani, il conforto che anche l' escursionismo invernale sia oramai compreso nelle sue più moderne forme anche nel nostro estremo angolo ticinese, la speranza che la passione dello sci trascini una torma sempre più compatta di giovani verso le luminose ascensioni, ed a me l' altra intima speranza, che tu possa essere ancora fra le nostre file, per sempre.

Tuo Guido.

Aletschhorn — Cervin 1 ).

Par E. R. Blanchet.

II. Cervin.

Première descente intégrale des surplombs de Furggen.

Dans la région de Zermatt, nulle part « les rappels de corde » ne sont de rigueur. J' ai rapporté ailleurs 2 ) l' apostrophe méprisante d' un guide local, qu' aucun engagement n' avait conduit aux Aiguilles de Chamonix: « Bonnes pour Chamonix, vos manigances! Ici, nos parois sont trop hautes! » C' est pourtant à Zermatt que la technique des rappels de corde peut trouver sa plus belle application.

Epris de voltige aérienne au long de murailles à pic ou en surplomb, j' ai déploré souvent, dans mes séjours à l' ancien Pra Borne, d' avoir à me contenter, à cet égard, d' une voie « qui m' est réservée » au Petit Riffelhorn.

Un beau jour de l' été de 1929, je ne sais quelles paroles de Mooser vinrent illuminer soudain un coin obscur de mon cerveau.

Le profil de l' arête de Furggen, le grimpeur qui l' a contemplé ne l' oublie plus. Il a terrifié et obsédé les alpinistes. Seuls ont passé à l' action Mummery, en 1880, Guido Rey en 1899, Ryan et G. Winthrop Young en 1905, Piacenza en 1911. Aucun nom de grimpeur suisse ne figure dans l' histoire de Furggen. Pourtant ne s' agit pas de la plus belle arête de la plus fière cime de l' Eu? Et les Suisses n' occupent pas depuis longtemps une place déjà très honorable dans l' alpinisme?

Des quatre caravanes précitées, deux seulement purent s' attaquer au problème véritable, la découverte d' une voie de l' Epaule au sommet. L' une d' elle, celle de Rey, chercha la solution sur le flanc nord de l' arête. L' autre, celle de Mario Piacenza, la trouva sur le flanc sud. Mummery d' abord, puis Ryan et Young avaient gravi déjà jusqu' à l' épaule, sans autre souci que celui de se soustraire aux chutes de pierres. Ils avaient dû renoncer à toute tentative au delà et s' étaient échappés avec peine au moyen d' une traversée risquée vers l' arête du Hörnli.

Nous avions consacré le vendredi 31 août au voyage de Belalp à Zermatt. L' orage de la veille avait filtré l' air, pur et limpide. Pas la moindre tâche de neige fraîche sur les sommets. N' était pas pitié que d' employer une telle journée à la descente de chemins muletiers, où la boue déjà se muait en poussière? Jamais l' arête de Furggen ne se fût présentée en meilleures conditions Retrouverions-nous cette chaleur favorable aux aériens « rappels » de grande altitude, cette absence de vent, de menaces d' orages?

La sagesse commandait d' attaquer l' arête sans délai. En montant le lendemain au Hörnli, nous profiterions du dimanche, jour de repos pour le Cervin — ou presque —. Les avalanches de pierres en seraient d' autant plus rares. Mais pour Mooser, mieux valait encourir ce danger, dans toute sa plénitude, que de se dérober aux dévotions dominicales.

Une promenade au Riffelhorn occupa le samedi; avec ma femme, j' y « varappai » en des lieux célèbres qui ont nom « Skyline », « Gletschercouloir » et « Seeweg ». Je m' exposai à un sévère regard de guide local quand je témoignai, une fois de plus, de ma prédilection pour une variante à la cheminée du Skyline. Elle consiste à la gravir sur la droite, en dehors, au lieu de la ramoner par l' intérieur. Sûrement, Mlle Eugénie Salsafette, 1a belle jeune femme de l' asile d' aliénés d' Edgar Poe, ne choquait pas autant, lorsqu' elle s' efforçait de se vêtir en se mettant en dehors de ses habits, et non pas en dedans.

Du haut du Riffelhorn, je contemplai avec avidité l' arête de Furggen. Un nuage commençait de s' y former. Je revis pareil nuage tous les après-midi de cette longue période de beau temps. Il s' épaississait et s' étendait, noir, menaçant, puis se résorbait à la nuit.

Ce même soir, nous prîmes nos dernières dispositions. Il ne s' agissait ni de testament, ni de notaire. L' achat de tout ce que Zermatt possédait en pitons de fer, en anneaux de corde, importait bien autrement. Mooser prépara aussi son burin, un marteau. Nous vérifiâmes l' état de notre longue corde de 82 mètres. ( Coupée en deux tronçons inégaux, en vue de la reconnaissance opérée par mon guide et Victor Imboden l' an dernier dans la face nord du Cervin. ) Pour économiser nos forces, j' avais décidé d' emmener jusqu' au sommet le jeune Linus, chargé de toute la ferraille et du grand filin, et de le laisser redescendre seul par la même voie.

Et j' avais décidé aussi d' aller dormir le dimanche soir au Lac Noir, au lieu d' entendre une fois de plus la « bourrée » que semblent danser parfois, à l' étage supérieur de l' hôtel du Belvédère, certains pieds chaussés de sabots empruntés à la toute voisine cabane du Club alpin suisse.

A 10 heures du matin, nous gravissons, ma femme et moi, les lacets du sentier du Lac Noir. Elle a désiré m' accompagner jusqu' à Hermettje, à mi-chemin. J' ai toujours trouvé intacts, à l' heure des adieux, son optimisme et sa confiance. Pourtant, comme nous déjeunons au rustique chalet, je prends soin de placer ma compagne de façon à lui cacher les effroyables représentations des dangers du Cervin, tels qu' ils figurent sur les estampes clouées au mur.

A 2 heures, je me lève, boucle mon sac et saisis mon piolet. Je poursuis désormais seul vers le Lac Noir et mon destin.

Peu de monde à l' hôtel du Lac Noir. La face est du Cervin « fume » de haut en bas. Les vapeurs mouvantes se plaquent contre la paroi, courbées en volutes sur son bord gauche, l' arête de Furggen. La nuit dissipera sans doute ce nuage quotidien, plus menaçant à chaque fois. Demain le verra sans doute plus noir, plus dense.

A 5 heures, leur conscience bien blanchie, Mooser et Pollinger me rejoignent. Ils n' ont rien oublié. La trousse de cambrioleur des hauts sommets est au grand complet: elle contient tous les moyens de forcer les serrures les plus secrètes, et l'on sait qu' à Furggen, il en est qui ferment bien...

Après une averse discrète et brève, le temps fraîchit. La dislocation du nuage s' annonçait. Je me mis en quête, dans la bibliothèque, de quelque soporifique. Celui que je trouvai se montra efficace, encore que ce ne fut pas un produit de la marque célèbre « Georges Ohnet ». Je dormis d' une traite jusqu' à 2 heures. La lune n' était pas encore à son premier quartier. Mais dans la nuit sombre d' innombrables étoiles attestaient qu' aucune nébulosité ne subsistait.

2000 mètres nous séparent du sommet. Pour tenter la descente de Furggen, nous partons, avouons-le, de bien bas. Fait plus grave, Mooser souffre d' in. La sudation, quelques haltes le remettront-elles? Parfois, je le vois penché sur la pente, comme se penche sur la mer, cramponné au bastingage du navire, le passager livide qu' écœure la berceuse du flot. A Solvay, nous rencontrons une caravane autrichienne; montée par Zmutt, elle a bivouaqué à quelques minutes du refuge. Il est 10 heures quand nous touchons au sommet. Notre lente allure a ménagé les forces du malade. Il les déclare suffisantes pour tenter l' aventure... après un nouveau repos.

Les 82 mètres de corde passent du sac de Pollinger dans celui de Mooser avec quelques vivres et la gourde. Nous emportons un sac de couchage en « Mossetig-batist », du poids de 600 grammes. Plié, il tient presque dans une poche de veste.

Linus, qui va redescendre seul au Hörnli, s' efforcera jusqu' à l' Epaule de communiquer avec nous.

Nous avons fait toute l' ascension sans nous attacher. Maintenant nous nous mettons à la corde.

L' arête de Hörnli qu' a marquée le progrès, évoque, dans sa partie supérieure, le nord et le froid. La civilisation a épargné celle de Furggen, qui, aujourd'hui du moins, nous parle du Midi, de la chaleur. Là-bas, un toit de roches grises et tristes, où plaque un peu de neige et de glace. Ici des rocs colorés, rugueux, secs. A l' arête nord-est, les pierres branlantes ont disparu: la maladresse des uns, les soins des autres les ont arrachées 1 ). Avant même de commencer notre descente, nous savons avec quels égards, quels ménagements il faudra s' appuyer, se cramponner, se suspendre.

10 h. 35. Nous partons. Au début, l' arête n' est que le bord gauche ( sens de la descente la face en avant ) d' un vaste plan incliné. Au nord-est, un précipice formidable. Au sud-ouest, en revanche, nulle impression de vide. Pas d' analogie, par conséquent, avec la crête étroite d' un Rothorn, par exemple. Nous ne suivons pas partout la limite extrême du plan incliné; la ligne de moindre résistance est sinueuse, irrégulière. Des blocs très instables nous obligent à l' abandonner parfois. En ébranler un seul, c' est peut-être risquer un vaste écroulement. Souvent, des ressauts de quelques mètres semblent couper la descente. Par places, des surfaces déclives, sans la moindre aspérité; jamais pourtant, elles ne sont glissantes. L' ensemble figure un pêle-mêle de petits toits; les uns plongent vers le sud; d' autres s' orientent à l' est ou penchent à l' occident. Le soleil colore gaiement ces plans qui se chevauchent ou s' opposent. L' ombre, par ailleurs, les ternit. Quelques ruelles noires s' ouvrent entre deux rochers. Une fois, suspendus à un rebord, comme au chéneau d' un toit, nous nous laissons tomber sur un balcon étroit en surplomb sur l' abîme oriental. L' arête maintenant accuse plus de relief; à l' ouest et tout près, dans le plan plus incliné, se creuse un entonnoir profond. Jusqu' ici, la pente moyenne m' a paru correspondre à 45 degrés environ. Tandis que l' entonnoir s' élargit et plonge, notre arête retarde sa chute et court un moment, en faible arc de cercle, presque horizontale. Ce segment d' arc borde un évidement énorme, et à pic, de la grande paroi qui baille à notre gauche. Longuement, sans mot dire, nous nous penchons. Une tourelle borne au sud le parcours horizontal de la crête. Tourelle et palier se retrouvent aisément sur les photographies: ils sont uniques dans la ligne qui joint la cime à la grande Epaule. Nous savons qu' au delà, la rampe s' accentue à l' extrême, pour aboutir au saut du grand surplomb. Si préparés que nous soyons aux vues plongeantes, nous éprouvons, comme nous passons la petite éminence qui borne le palier, un haut-le-cœur: ce que ressent sans doute l' aviateur novice tombant de quelques mètres dans un « trou d' air ». Ici, va commencer la descente de cette partie du profil qui, de Zermatt, se dessine presque verticale et précède la zone infranchissable. Redoublement de prudence. Un moment, accrochés de saillie en saillie, nous suivons le fil de la crête. L' entonnoir, qui se creuse en précipice, à droite ( ouest ), fort au-dessous de notre niveau, a été franchi par Piacenza. Une peur rétrospective nous glace: par ce couloir d' épouvanté doivent tomber pierres et glaçons, tout ce qui, alentour et au-dessus, peut se détacher. L' homme qui a triomphé de la face sud du Tseschhorn a jugé ainsi la victoire de 1911: il faut s' étonner plus encore de la hardiesse de cette expédition que de sa réussite.

Encore un peu et l' arête va se dérober dans le vide. Aussi allons-nous poursuivre par son flanc suisse ( tout près du taillant de la crête ) et chercher d' atteindre quelque vire.

Un coup d' œil sur le versant opposé — le versant italien — me montre, à 20 à 30 mètres plus bas, un singulier amas d' ossements blanchis, tous pareils, qu' a arrêtés dans leur chute une corniche étroite.Vite, éclaircir ce mystère... Mon guide n' entend pas de cette oreille... « Dépêchons-nous, monsieur, c' est ici seulement que cela commence. » Cela, c' est cette portion de l' arête de Furggen où l' alpiniste et la loi de la gravitation entrent en conflit.

Avant de lire et de relire les pages si admirables que G. Rey a consacrées à l' arête de Furggen, je m' étais persuadé que ses tentatives avaient eu lieu sur le flanc italien. Rien n' ébranla cette conviction très fort ancrée. Rey, pourtant, avait écrit, citant un télégramme parti de Zermatt: « On a suivi le fait du Schwarzsee » ( Lac Noir ).

A elle seule, d' ailleurs, la photographie reproduite dans le chapitre de Furggen eût dû me détromper. Comment n' avoir pas fait ce raisonnement: si de Zermatt, on a suivi l' ascension, elle ne peut avoir eu lieu que sur le côté suisse, seul visible. Toutes les précisions que donne Rey, je les avais lues et la structure du Cervin, je la connaissais à fond. Rien ne prévaut parfois contre la puissance de l' idée préconçue. L' émotion rare, le pittoresque puissant de l' ouvrage de Guido Rey m' avaient empoigné. Je m' y étais abandonné aux dépens de toute préoccupation topographique. Ceci à la louange de ce très grand artiste, mais non à la mienne.

Quand je compris que ces ossements pouvaient être des échelons, je ne doutai plus d' avoir aperçu là les restes d' une échelle déposés au point même où on l' avait accrochée.

Aujourd'hui, je leur rapporte cette phrase de Rey: « Quant aux échelons, nous les lançâmes en l' air et leur bois disparut dans les profondeurs de la brume. » Ce geste, après le démembrement de leur seconde échelle, eut lieu au retour de l' ultime exploration, le 28 août 1899 1 ). Peut-être du point même d' où j' avais découvert les échelons...

Il est temps de fermer cette parenthèse et de suivre mon guide, dans une descente oblique sur la gauche, pour atteindre avec lui une vire en saillie dans la grande paroi. Nous nous trouvons à peu près sous la tourelle qui borne le palier de l' arête dont il a été parlé, et sur le bord méridional du grand évidement.

Malgré que le surplomb ne commence que plus bas, nous décidons de faire partir le « rappel » de la vire même: nous pouvons nous y mouvoir avec assez de liberté pour le préparer sans difficulté.

De son sac ventru, Mooser extrait marteau, burin et corde. Quant aux pitons, néant... Sans que Mooser y ait pris garde, Linus est redescendu du sommet avec toute sa charge de ferraille! Double distraction qui impliquerait l' abandon de notre projet, si Mooser ne se souvenait d' avoir laissé dans la poche extérieure, après la traversée de l' Aletschhorn, deux ou trois pitons et un anneau de corde transportés — pour rien — par-dessus ce sommet... Oubli ou prévoyance ?? Impossible d' apprécier la hauteur de la paroi 2 ). Mooser enfonce un piton dans une fissure du gneiss. Les coups de marteau profanent un silence quasi sacré, tout pareils à ceux de l' ouvrier qui répare un immeuble. Nous nouons les deux tronçons de la grande corde, et l' insérons dans la boucle métallique du piton.

L' heure du nuage cependant a sonné. Au-dessous de l' Epaule et jusqu' au Théodule, la brume rampe sournoise. J' ai parlé ailleurs 3 ) du danger qu' ap — dans un immense surplomb — l' emploi de la corde de caravane en 1928. Cette expérience nous décide à poursuivre sans nous attacher. Mooser descendra le premier, afin de débarrasser le parcours initial, au-dessus du surplomb, des pierres instables. Quant à moi, je demeurerai dernier, honneur sans responsabilité lorsque l'on n' est pas encordé.

Déjà, Mooser, quinze mètres plus bas, se penche sur le vide et juge des possibilités d' atterrir. La position de son corps, presque horizontal — d' équerre à la paroi — me fait comprendre que la partie sera sérieuse. A peine redressé, Mooser plonge, disparaît. Par moments, des frémissements courent dans le filin. Autour de moi, un peu de brume s' effiloche. L' attente est longue.

Enfin un appel: « Kommen ». Comme la voix m' arrive affaiblie...

Avec soin et délicatesse, je dévale le long de la muraille. Les prises, les appuis n' y manquent pas, mais ils ne méritent guère de confiance. A la face est de la Pointe Beaumont, j' avais franchi un à pic de 40 mètres, dont 29 dans l' espace. Cette manœuvre était la dernière d' une descente d' intérêt croissant. Mais ici, 20 mètres de rappel sous un surplomb ne représentaient qu' un début.

Dans un instant, j' aurai rompu toute communication avec le haut du Cervin. Quand et comment l' établirons avec le bas de la montagne? Nous sommes à la merci d' un refus de corde à se laisser rappeler...

Que la chute d' une pierre, ou de l' un des énormes stalactites de glace cachés à l' entour vienne à la couper, ou à nous assommer, cela n' est qu' un risque fort ordinaire. Pourtant, le souvenir de ces pendentifs brillants, aperçus dans cette région comme nous grimpions par l' arête du Hörnli n' a rien d' en. Il n' incite qu' à la vitesse. Mais sitôt envolé dans l' espace, je me sens envahi par une sorte d' ivresse voluptueuse. Entre la paroi et moi, l' écart grandit. Le mouvement de giration, d' abord très lent, s' accélère. Tantôt je vois le détail des roches sombres et toutes proches, tantôt le ciel bleu, ou une fumée légère de brume indécise. La ronde du paysage cesse soudain: je suis aux côtés de Mooser, sur un palier plein de confort, mais peu large. De l' arête du Hörnli, on nous hèle. Pollinger nous a-t-il vus ou s' in? Nous crions à notre tour. Midi.

Malgré l' observation de toutes les précautions d' usage, la corde résiste à notre traction. Pourtant, nous tirons sur le bon brin ( de façon à amener le nœud directement ) et nous n' avons pas vu de fissure où la corde ait pu se prendre. Mais il y a au-dessus du surplomb une surface de frottement haute de 15 mètres. Nous ne pouvons nous déplacer que latéralement. Cela est de peu de secours.

Une avance de quelques pas... dans le sens du vide, transformerait la ligne brisée de la corde ( produite par l' intersection d' un plan presque vertical, et d' un plan en surplomb ) en une droite, et supprimerait ce fâcheux angle ( très obtus, il est vrai ) qui paralyse notre effort. La résistance cède brusquement à une secousse furieuse 1 ). Quand Furggen sera devenu une « course facile pour dames seules », elles feront bien de l' affronter à deux tout au moins. Leurs forces auront avantage à s' unir pour y rappeler les filins: nos faibles muscles masculins ont failli n' y pas suffire.

Vers le sud descend en oblique une enfilade de cheminées à pic, mais sans surplomb. Pourtant, il faut, ici aussi, user d' un rappel. Une fente aménagée au burin reçoit l' anneau de corde. Pendant quelque vingt-cinq mètres, nous nous coulons en douceur jusqu' à une plateforme presque spacieuse. De nouveau, le marteau entre en jeu. Le piton planté et vérifié, Mooser repart. Immobile entre deux abîmes, je le perds bientôt de vue. Un instant plus tard, après 12 mètres de paroi à pic, je tournoie comme l' araignée au bout de son fil. Plutôt, j' ai l' illusion d' être stable. C' est le Cervin, le lointain Breithorn, le brouillard plus épais, le bleu moins pur, qui tournent autour de moi. Une tache de neige, puis Mooser, se précisent, emportés dans la danse. Ce surplomb de 23 mètres est plus évidé que le premier. Au mouvement de rotation s' ajoute peu à peu une oscillation de pendule. L' un et l' autre s' arrêtent net. Et ma descente, aussitôt, demande de très gros efforts. La corde qui, tout à l' heure, glissait sur mon dos et sur une cuisse, se fait dure et coupante à la fois. C' est Mooser qui en a saisi les deux brins et m' impose ainsi une lutte pénible contre un freinage inutile 1 ). Enfin, tout raide et endolori, je me délivre. Mon compagnon a voulu m' épargner une oscillation très forte qui l' avait jeté, lui, un instant en Italie, sur l' autre côté de la crête. J' eusse préféré cette embardée.Voici ma culotte épaisse, mais un peu « mûre », très entamée par la corde, et ma peau saigne comme après un coup de « knout ». A deux, nous tirons. Docile, avec un claquement sec, le filin s' abat, en partie, sur la pente.

« Et l' aéroplane, monsieur, l' avez vu? » Je n' ai rien vu, rien entendu. Mais Caspar précise. Pendant ma descente un avion s' est approché, son passager a fait signe... Est-ce le même aéroplane qui tantôt ( j' ai omis de le dire, tant le fait est quotidien ) est venu rappeler la civilisation, le bruit et le cher « prochain » sur la cime du Cervin 2De larges gouttes de pluie, aussitôt séchées, changent le cours de nos pensées 3 ). Un appel. C' est la voix de Pollinger.

Tout près, la pente, une fois de plus, se dérobe. La corde pliée, nous descendons, en oblique, sur la gauche, coupant des vires étroites, nous coulant sur de petits pans de rochers. Ces escaliers s' arrêtent au bord du vide qui fume comme une chaudière. Soudain, sur la droite, nous découvrons une issue, et avec elle, la fin de l' aventure. Une sorte de couloir facile oblique ( il tient de la cheminée par places, de la vire par ailleurs ) descend en une vingtaine de mètres à une épaule importante: la grande Epaule de Furggen.

A 2 h. 30, nous l' atteignons. Nos hurlements le disent à Pollinger. D' autres déjà s' y sont dressés; les uns, battus après une lutte héroïque, acharnée; les autres obligés de renoncer à l' assaut suprême. Seul Piacenza s' est trouvé ici sur le chemin de la franche victoire. Mais quelle différence d' avec nous. Ses guides et lui, tendus comme des ressorts, enfiévrés par la perspective de la bataille... Nous, libres de tout souci, les nerfs calmes, les muscles presque au repos.

Des vents contraires poussent le brouillard. Il se tord comme une crinière, sur la crête de l' Epaule, chauffée par le soleil que l'on sent tout près encore.

Une mer de vapeurs, tourmentée par une houle, s' étend et se meut à quelques centaines de mètres au-dessous, assez haut cependant dans la face orientale. Et voici qu' un halo s' y dessine, et dans ce halo, moins net, une silhouette humaine. Le soleil a percé la brume derrière nous et sur l' écran très dense inférieur apparaît le spectre du Brocken. Longuement, nous regardons, mais le météore pâlit, s' efface. « Sehr schön », dit Mooser qui n' a pas de superstition. Il n' a pas lu le livre de Whymper où est décrite une vision sinon semblable du moins analogue et la terreur qu' elle inspira à ses hommes.

On se le rappelle, 15 mètres seulement ont séparé Rey de la victoire. Comment alors avons-nous dû franchir deux surplombs absolus, quarante-trois mètres de vide?

Nous n' avons pas cherché une voie réduisant les surplombs à un minimum: nous ignorions que cette voie existât. J' avais appliqué au côté ouest de l' arête tous les détails que donne Rey pour son flanc oriental.

Certes, à la montée, le problème se fût présenté sous un autre aspect. Nous eussions recherché, à gauche, à droite, la ligne de moindre résistance. La curiosité insatiable de Mooser aurait-elle, pendant mes descentes en rappel, arraché un secret aux roches de Furggen? Caspar n' est pas loin d' admettre que peut-être, avec l' appui artificiel de quelques chevilles, on pourrait envisager des possibilités d' ascension. Mais il n' a pas lu, dans Guido Rey, les recherches patientes, acharnées de 1899, la lutte désespérée, la morne retraite...

Malgré l' évolution du mot « impossible » en matière d' alpinisme, mon opinion demeure, quant à l' escalade du flanc suisse de Furggen, plus que réservée. Deux coins de bois, il est vrai, ont suffi à nous livrer, en 1928, contre toute vraisemblance, la clef de l' ascension du Rothorn, par l' arête de la Kanzel et le versant oriental ( voir A.J. n° 237, page 378, et « Les Alpes », 1929, p. 27 ).

Ce fait demeure: Rey et ses guides ont étudié en plusieurs fois le problème de Furggen, par le haut, par le bas. Seuls Rey et l' un des guides ont touché du pied chaque point de la paroi sur une longueur de 80 mètres ( 80 mètres, si l'on compte la descente de 15 mètres faite au moyen de l' échelle de corde ). De toute évidence, lors de la tentative de 1899, un itinéraire différent du nôtre fut suivi. Différent à l' extrême, mais forcément très voisin.

Pour redescendre de l' Epaule à Zermatt, deux voies s' offrent à nous. L' une, de la pire renommée, plus brève, bombardée, fort difficile en un point: la traversée à niveau vers l' arête du Hörnli.

L' autre, plus longue, délicate au début seulement 1 ). Nul rapport entre ce début ( exposé aux chutes de pierres ) et ce que Mummery, Ryan, Young ont trouvé en s' échappant vers le Hörnli.

L' attrait des obstacles si difficilement surmontés par Mummery et ses successeurs finit par l' emporter.

Pour commencer, il faut descendre un peu. De la neige, un toit humide, glissant et nous voici à l' issue supérieure du « couloir Rey ». C' est par ce couloir, entre l' arête et une crête secondaire ( qui, d' ici, paraît s' avancer plus bas en promontoire, relevé sur la pente ) que l'on a évité le ressaut sous l' épaule de Furggen. Seul ce ressaut réhabilite — à peine — l' arête de Furggen ( sa partie inférieure ) aux yeux de W. Young, ce vulgaire « mur de soutènement » de la face est. Une ligne de tir principale se trouve dans l' axe du couloir Rey et du grand évidement. Nous coupons cette ligne de tir, non sans regarder vers la région supérieure que lèche un brouillard très noir et non sans prêter l' oreille au moindre bruit.

... Derrière nous, un fracas de pierres qui rebondissent. Nous imitons à notre tour « une harde de chamois effrayés ». Rientôt, nous reprenons une allure moins brillante, mais plus sûre.

Des couloirs, des nervures, courbes en dedans, courbes en dehors — et voici venir l' arête. Nos muscles se bandent en vue du passage formidable. Mais où donc est-il? Nous l' avons manqué, car nous atteignons l' arête bien facilement à 3 h. 40, entre les deux pitons inférieurs d' une rangée de quatre, vestiges d' une barrière de corde bien inutile.Visant le sommet, les autres caravanes ont dû, d' instinct, obliquer vers le haut. Et nous autres vers le bas. Ainsi, nous avons inauguré la variante facile d' une voie très décriée.Voie délicate pourtant, où la cheville, de façon presque continue, doit se tordre pour permettre au pied d' adhérer à des surfaces inclinées vers l' abîme. N' étaient quelques névés, des dalles humides, l' espadrille y ferait merveille. Nous sommes à 15 ou 20 minutes du refuge Solvay. Nous nous arrêtons longuement. Mooser, penché sur la face nord, en sonde avec curiosité l' horrible profondeur 2 ). Quant à moi, je guette, dans la houle de la brume, chaque brève apparition, d' une section des surplombs de Furggen. Mooser se penche, se penche. Est-ce que... Mais non, la morne victime du mal de mer n' est plus qu' un souvenir.

Puis commence une paresseuse, une lente descente par la voie où les boîtes de conserves « se précipitent en avalanches ». Si paresseuse qu' enfin nous craignons l' envoi d' une caravane de secours. Cette crainte nous rend une allure presque honorable. A 6 h. 30, nous pénétrons dans la cuisine du Relvédère, d' où s' échappe la vapeur parfumée d' un bouillon tentateur.

La soif et une averse prolongée nous retiennent au Lac Noir. Nous arrivâmes très tard à Zermatt. On n' y eût pas accueilli avec plus de curiosité cet alpiniste qui avait gravi, selon le « Matin », la « Dent Blanche du Cenis par la gorge de Zermatt ». Cet exploit, aux yeux du journal parisien, constituait son plus haut titre à l' honneur de pouvoir participer à l' expédition du Kang-chingjunga. Avant de pousser la porte du Victoria, il fallut, sous le ciel étoile, répondre à mille et une questions, très fiers d' abord, puis impatients. Tous fourneaux éteints, le grand dîner réparateur que j' avais remis d' étape en étape dut être renvoyé au lendemain. Ventre creux, chacun s' en fut coucher. Le matin suivant, une dépêche adressée de Zermatt à la Gazette de Lausanne annonçait l' exploit invraisemblable de la « première descente de l' arête de Zmutth Linus et Mooser ne sont pas les seuls distraits de la vallée 1 )!

A Riffelalp—délicate attention ou coïncidence ?—on me donna une chambre dont la fenêtre encadrait exactement le Cervin. De mon lit, j' en apercevais la pyramide. Avec le télescope puissant de l' hôtel, je revis tous les détails de l' arête. Un jour, je gravis l' Alphubel, l' Allalin, le Rimpfischhorn. Chacun de ces pics s' était mué en observatoire destiné à l' examen du seul Furggengrat.

Une contemplation prolongée du soleil imprime sur la rétine une tache qui ne s' efface que lentement. Ainsi en fut-il pour moi avec le Cervin. Il se superposait, si je puis dire, à tous les paysages. Je le retrouvai partout; même à Finhaut où, un mois plus tard, je répétai mes petites grimpées du début de juillet. Il ne fallut rien moins que l' exploration lointaine d' un curieux chaînon oublié 2 ) pour me délivrer de l' obsédant profil de l' arête en surplomb, découpé très haut sur le ciel.

Paris, janvier 1930.

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