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Montagne ticinesi

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Il Ghiridone.

Io vorrei fare un gradito regalo a tutti i consoci del Club Alpino Svizzero ed a tutti gli alpinisti d' oltre Gottardo che visitano il Ticino: vorrei loro racco-mandare una bella ed interessante montagna, il Ghiridone, l' ultima vetta delle Prealpi ticinesi, delle quali è la burbera sentinella avanzata, che affonda uno dei suoi versanti nel territorio italiano, delimitando con la sua lunga agile e sinuosa cresta il confine italo-svizzero verso la Valle Cannobbina.

Una bella montagna, considerata in tutti i suoi aspetti: geografico, orografico, geologico ed alpinistico. 2191 metri. Facile ascesa, quindi, malgrado la sua apparente difficoltà di approccio e di scalata. Sopratutto dal versante svizzero delle Centovalli, il Ghiridone presenta, sia pure in iscala ridotta ed adeguate proporzioni, tutti i caratteri morfologici dell' alta montagna.

Isolotto roccioso in mezzo ad un mareggiare di montagne verdi e prative, linee dure, secche, angolose, profilo grifagno, il Ghiridone, che lancia la sua vetta ferrigna a quasi 2200 metri d' altezza, a specchiarsi nel bacino verdazzurro del Verbano, offre un singolare esempio di vivace contrasto fra il monte basal-tico, nudo, duro, statico e scarnito, senza raddolcimento alcuno, delle catene centrali, e le miti e soavi Prealpi che spingono la loro morbida e smeraldina teoria a digradare verso la pianura padana.

La toponomastica ticinese, che è fra le più espressive e le più pittoriche, e che molto attinge dalla poetica immaginosità degli abitanti, trova nel Ghiridone una delle sue più eloquenti ed interessanti estrinsecazioni. Ghiridone. C' è in questo nome tutto il senso di forza e di rudezza che aleggia sulla sua testa falcata, sui suoi fianchi possenti, scoscesi e strapiombanti e sulle nude e desolate scogliere dei suoi contrafforti. Da noi la fonetica dei nomi delle montagne non riesce mai a scompagnarsi da tipiche e salienti armonie imitative. « Ghiridone » fa pensare istintivamente a qualche cosa di dentato, di seghettato, di profondamente inciso e di strettamente ingranato. Un nome che si direbbe pensato, elaborato, composto ed imposto con una precisa e particolare intenzionalità. Siamo molto lontani e molto più progrediti dalle semplicistiche elementari etimologie di altre località alpine, dove un Breithorn viene così battezzato per la sua larga ossatura ed un Weisshorn per la sua bianchezza abbagliante, e via dicendo. Ghiridone: nome aspro, barbaro e soave. Dice nulla. Dice tutto.

Io amo il Ghiridone, e vorrei farlo amare da tutti gli alpinisti nella mia stessa misura. È la mia montagna preferita. È la montagna prediletta di tutti gli escursionisti della nostra regione. Il Club Alpino di Locamo vi sale ogni anno, ed i suoi aderenti rinnovano periodicamente tutte quelle emozioni estetiche, artistiche ed alpinistiche che il Ghiridone offre a dovizia. Delle tre vette che custodiscono Locarno entro un netto triangolo ( il Tamaro, il Ghiridone ed il Pizzo di Vogorno ), il Ghiridone, svettantesi dietro la cortina rocciosa e tormentata dei Lenzuoli, è indubbiamente la più bella, la più radiosa, la più suggestiva, quella che offre il panorama più vasto, più aperto e più luminoso.

Al Ghiridone si accede da più parti: dall' Italia, per la valle di Cavaglio S. Donnino, da Brissago, attraverso i bellissimi alpi che sovrastano il ridente borgo litoraneo, da Rasa, per la vertiginosa cresta dei Lenzuoli e da Palagnedra per la romantica e fresca valletta di Bordei.

Quest'ultimo itinerario è il più simpatico, il più pittoresco ed il più artistico. Voi attaccate la montagna alla sua base, poco sopra Palagnedra, e la risalite, sempre diritto, sino alla vetta, senza mai staccarsi da essa, come aggrappati al suo fianco orientale, seguendo un angolo d' inclinazione che spazia fra il 30 ed il 40 %. La valletta, profondamente incassata fra la maggior vetta del Ghiridone e la scogliera dei Lenzuoli, è deliziosa per frescura, non penetrandovi il sole che a mattino molto avanzato, permettendo così di effettuare tutta l' ascesa in condizioni eccezionalmente favorevoli. Il sole voi lo troverete sulle balze rocciose che arginano, in alto, la Bocchetta del Fornale conformata a ferro di cavallo, ma da questo punto l' ascensione può dirsi compiuta, perchè con una mezz' ora di arrampicata la vetta viene raggiunta, toccando il Limidario ( 2145 metri ) dapprima, e raggiungendo la sommità del Ghiridone per la facile cresta da cui si dominano alcuni stupendi ed impressionanti a picco.

È precisamente dalla parte di Bordei che l' escursionista ritrova tutte le caratteristiche dell' alta montagna: pareti vertiginose, fessurate, sfaldate, altissime, burroni e precipizi strapiombanti; creste dentellate, camini interminabili; aguzzi pinacoli di roccia, il canalone, il brecciaio, la pietraia. La stessa conca del Fornale vi fa pensare ali' alveo di un ghiacciaio scomparso, e la costante presenza di lavine, di nevati e di traccie moreniche rafforza la supposizione.

Nei remoti tempi geologici la vetta del Ghiridone doveva formare un tutt' uno con la poderosa bastionata antistante dei Lenzuoli, incisa da vaste spaccature al di là delle quali azzurreggia il bacino superiore del Verbano, ride l' estuario del Ticino e si sfumano le montagne del Bellinzonese e della Leventina. La netta divisione costituita dalla valletta di Bordei deve essere stata originata da oscure ed immani forze tettoniche e proseguita dall' azione degli elementi naturali. Si è istintivamente indotti a pensare ad un immane colpo di fendente calato dall' alto in basso nel cuore della massa granitica — uno di quei colpi favolosi sferrati dai giganti delle antiche leggende per aprirsi un varco innanzi agli insormontabili ostacoli della natura.

Siamo saliti al Ghiridone in una radiosa mattinata di giugno. La montagna si inquadrava con i suoi contorni ciclopici ed asimetrici nella gloria di purissimo azzurro di un cielo di turchese. La neve, che ancora guarniva le vette e le creste e che ancora si annidava negli alti canaloni, perfusa dalla luce bionda che il sole riversava a torrenti, sembrava scintillare come una gigantesca rivestitura di madreperla. La nostra comitiva, superati gli abituri di Bordei, ad oltre 700 metri, attaccava animosamente il sentiero erto della valletta che segue il letto del torrente, il quale si presenta in certi punti così inclinato da dar l' idea a chi lo guardi dal basso, dal fondo della valle, di un succedersi ininterrotto di molli e soffici cascate. Sorpassato un largo pianoro, un caratteristico circo alpestre, la valle si restringe e si rinserra bruscamente, conclusa, a destra di chi sale, dalle propaggini dei contrafforti settentrionali del massiccio, ed a sinistra dal Pizzo Leone e dal gruppo dei « Lenzuoli », in una bizzarra successione di picchi, di guglie, di zanne, di denti e di spuntoni di roccia. Si sale senza troppo sforzo per un sentiero da capre. Il torrente si precipita, spumando, per il suo letto pietroso, inclinatissimo, accanendosi contro le roccie levigate, terse e polite come marmi trattati dalla pomice. Sosta e s' indugia talvolta entro conche profonde, e riprende la sua avanzata resa più veemente ed impetuosa dalle strozzature della roccia. Ad un dato punto il sentiero ripiega, taglia la valletta, cavalca il greto e passa da destra a sinistra. Si sale con la visione bianca-azzurra della Bocchetta altissima innanzi agli occhi.

Verso la quota 1800 è un succedersi di balze rocciose, una sovrapposta ali' altra, come una scalinata di titani, specie di lastroni molto erti, che si scalano di fronte, con una relativa facilità, per comode cornici diagonali, con l' aiuto di radi ciuffi di rododendri, che offrono presa ed appiglio. Queste assisi granitiche, che ci portano rapidamente in alto, danno una certa sensazione di aereo e caratterizzano singolarmente il passaggio. La vetta del Ghiridone ci sovrasta: minacciosa, massiccia, diruta, repellente. La neve disegna tutto un sistema venoso ed arterioso sulle sue pareti. La Bocchetta del Fornale, ampio semicerchio, quasi tutto nevato, concluso dall' estremità dei Lenzuoli, che si presentano come una gigantesca sbrecciata e corrosa muraglia, e dalla catena del Limidario e del Ghiridone, è finalmente raggiunta. Essa viene risalita in tutta la sua lunghezza. Il passaggio si effettua sull' ampio nevaio d' una candidezza accecante e d' una lussuria... oftalmica, sul quale il sole rifrange dei raggi perpendicolari. Poi le orme ripie-gano ancora a destra, immettendoci all' imbocco di un canalone che sale quasi verticale per il fianco del Limidario. Neve altissima e traccie gradinate. Siamo sulla cresta. Visione superba, colpo d' occhio impagabile. Prima le montagne verdissime, poi le vette maggiori grigie, ferrigne, ocrate, calve, rase e, infine, la sinfonia delle nevi eterne e dei ghiacciai a perdita d' occhio. Nel basso, tre, quattro, cinque laghi, tutta la regione lacustre, superfici d' acciaio brunito affogate nel verde cupo delle valli, svelano, all' improvviso, i loro contorni sinuosi.

Ecco il Verbano in tutta la sua maestosa ampiezza, ecco il tortuoso ed angusto Ceresio, ecco un angolo del Lario, il lago di Varese, il laghetto di Varano, l' alpestre laghetto d' Elio, lacrima di zaffiro in una ganga di diaspro. Ed ecco la cerchia immensa, affascinante della catena delle Alpi, di cui vengono rapidamente identificate le vette più celebri: il Monviso, il Gran Paradiso, il massiccio del Monte Bianco, il vicinissimo Monte Rosa, il gruppo dei Mischabel, l' aguzza e snella piramide del Finsteraaraarhorn, l' armoniosa configurazione della Jungfrau. E più propinqui, il Sempione, il Basodino, il gruppo del Gottardo, il gruppo dell' Adula, le montagne ticinesi, valdostane, valsesiane, ossolane, comasche, valtellinesi e bergamasche. Lontanissimi, il Bernina, lo Stelvio e l' Ortler. La posizione del Ghiridone rispetto ah " imponente semicerchio delle Alpi è fra le più favorevoli, ed è tale da permettere una visione panoramica completa e perfetta.

Dalla tozza eminenza del Limidario la vetta del Ghiridone si raggiunge in venti minuti. Gli ultimi cinquanta metri di ascesa sono forse i più duri, ma sono innegabilmente i più emozionanti. Orrore di vuoto sotto i nostri piedi, profili minacciosi di scogliere che azzannano l' azzurro profondo del cielo, ondulazioni vaghe di creste nevose e una fuga disordinata e tumultuosa di roccie desolate e fantastiche che corrono a sprofondarsi verso l' estremità della Valle Vigezzo.

Troviamo sulla vetta una quindicina di confratelli, soci del Club Alpino di Lugano. La fama del Ghiridone è uscita da tempo fuori dell' orbita locale e regionale. I Luganesi ci dicono senza riserve l' entusiastico elogio della montagna bellissima, che ha appagato oltre misura le loro aspirazioni di energici e provetti arrampicatori, superando, di gran lunga, le loro aspettative. La scalata da Palagnedra ha richiesto quasi sei ore. Ma sono state sei ore di intenso godimento.

Sul « cairn » che sorregge la segnalazione trigonometrica viene innastato il guidone con i colori locarnesi: il bianco e l' azzurro. Il Ghiridone li accoglie come una vecchia conoscenza. Vicini di casa, infatti...

Poncione di Braga.

Un bel nome, di schietto sapore lusitano, sonante come una strofa delle Lusiadi. Vi sono dei nomi di montagne che sono fulcri di associazioni d' idee, che fanno involontariamente fantasticare. Penso a Camoens, al suo immortale poema epico, alla patria del Cid, alla dispersa dinastia dei Braganza, a Teofilo Braga il delicato poeta di Cimbria, il cantore dell' « Ondina sul lago » e uno dei principali forgiatori dell' irrequieta republichetta portoghese. Cerco la genesi o la derivazione del nome di questa bella ed interessante montagna dai fianchi cuprei, dalla sagoma foggiata ad agile ed armoniosa piramide, che conclude a sud la verde e profonda conca di Robiei e che specchia il suo cono negli antistanti ghiacciai. E mi domando come diancine ha potuto questo nome così peculiarmente portoghese trapiantarsi nel fondo di questa austera Val Bavona, tutta verde, tutta animata dal rumore di acque cadenti, percorsa da cima a fondo dai brividi delle nevi e dei ghiacci eterni.

Comunico le mie impressioni all' amico Padovani, il simpatico presidente della Sezione di Locarno del C.A.S., appassionato alpinista, fine e colto osser- vatore ed infaticabile raccoglitore delle più interessanti curiosità attinenti alle nostre regioni di montagna. L' amico Padovani sorride con arguta ed amabile ironia, e mi consiglia di diffidare da certe sospette sfumature poetiche, di tarpare le ali al mio incorreggibile lirismo e di restare prudentemente nell' ambito più logico, più modesto, più appropriato e più consono della toponomastica alpina ticinese, nei suoi naturali ed aderenti rapporti col dialetto. Il quale dialetto ci ricorda che... « braga » è un indumento personale, umile e prosaico quanto necessario: i calzoni, le braghe, la braga, per dirla in buon vernacolo. Pare che certe denominazioni di montagne ticinesi abbiano delle origini e delle desinenze buffe e curiose. I primi topografi federali che scesero nel Ticino per rilevarne e triangolarne il complesso sistema orografico non andavano tanto per il sottile. Si raccontano, in proposito, degli annedoti che hanno sapore di barzelletta, ma che malgrado il loro tono ridanciano vengono spesi come autentici. « Come si chiama questa montagna? » domandava il cartografo bernino all' alpigiano ticinese. E questi, stringendosi nelle spalle: « Sö mia! » ( Non so !) « Monte Somia », registrava con perfetta convinzione il geodeta. E il nome bislacco sarebbe forse passato ai posteri attraverso gli atlanti e le carte geografiche e topografiche ove non fosse tempestivamente intervenuta una razionale revisione di tutta questa arbitraria, fantastica e sporadica nomenclatura. I battezzamenti di questo genere furono frequenti, e qualcuno di questi nomi eterocliti e bizzarri è rimasto e si è perpetuato accanto ad altri nomi singolari, invece, per semplicità e freschezza d' ideazione. Ad esempio: Sasso Ariente. Sasso Ardente? Sasso d' argento? Macchè. Sasso pendente. Il vernacolo italianizzato. Ariente in dialetto significa appunto pendente, pencolante, inclinato. Poncione di Trosa. Nome niente affatto indivi-dualizzatore. Denominazione generica. Nella favella un pò andegara della Verzasca, della Valmaggia e dell' Onsernone le trose sarebbero quelle eminenze aride, brulle e rocciose, invariabilmente fasciate da folti viluppi di rose delle alpi. Trosa. Rosa. Rimane, è vero, la limpida desinenza floreale, associata al senso ruvido della roccia, ma esula la caratteristica fondamentale di un nome proprio. Quindi, il Poncione di Trosa, malgrado la sua bellezza, la sua originalità e la sua rispettabile altitudine ( quasi 1900 metri ) sarebbe un povero... innominato, una semplice trosa, più vasta e più alta delle sue congeneri.

Probabilmente, qualche montanaro, che in un giorno lontano fece l' ascesa del Poncione detto oggi di Braga, e che lo discese servendosi prevalentemente di quella parte del corpo dove finisce la schiena, lasciando fors' anche qualche lembo di... braga sulle scabre asperità di qualche crestina, ha dato origine al poetico nome onde si inorgoglisce la bella montagna dalle roccie fulvo-rugginose, tutte venate di quarzo cristallino, svettantesi dietro le verdi balze di Robiei, la cui cima mi salutò in un vespero d' agosto allo svolto della sonora cateratta di Lielpe, guardata, come da una' sentinella, da un caratteristico masso erratico a foggia di fungo, retaggio di ghiacciai terziari o quaternari...

Non ero mai stato a Robiei. I miei compagni d' escursione, sì. Parecchie volte. Noi Ticinesi, figli delle Prealpi, non possediamo le grandi montagne che salgono a sfidare le nubi, i picchi vertiginosi che sembrano traforare il cobalto dei cieli ed uncinare la nuvolaglia vagabonda, le aguglie monoli-tiche che strapiombano sulle giogaie possenti e gli immani e sterminati ghiacciai che caratterizzano l' orografia del Vallese, dell' Oberland, del Grigione ecc.

Le nostre montagne, salvo qualche rara eccezione, rimangono al disotto dei tre mila metri. I rari nostri ghiacciai sono belli, ma angusti, limitati e circoscritti dalla modestia delle montagne che li ospitano. Ma se i nostri monti non rivestono la livida grandiosità, il tragico orrore e la sublime maestà dei colossi delle Alpi, hanno peraltro una grazia ed una armonia così suadenti ed invitanti, una così limpida facilità di accesso e di approccio, da rendersi amici, a primo acchito, anche i più ostinati sedentari, i refrattari più ribelli ed irriducibili.

Per questo, noi Ticinesi andiamo incontro alle nostre montagne con un senso di cordialità e di fiducia. Ne delibiamo, ne centelliniamo, ne assaporiamo le loro caratteristiche bellezze, cercando di farle intimamente nostre con delle ascensioni volutamente lunghe e periodicamente ripetute. Non siamo collezionisti di vette, e facciamo dell' alpinismo discreto, razionale e rimunera-tore. Da esteti e da igienisti. Cerchiamo la bontà, la soavità e la bellezza placida della montagna, prima di cercarne la forza, la crudezza, la resistenza e l' ostilità. Non facciamo la montagna per la montagna, ma per il beneficio fisico e morale che da essa possiamo ritrarne. E cerchiamo, avantutto, l' azzurro più puro, l' ossigeno più vivificatore, la pace più grande, l' orizzonte più vasto e più aperto. Siamo un pò i mistici, gli idealisti, i platonici, i piccoli romantici della montagna. Dei ruskiniani della prima maniera. Non emozioni violente, ma sottili sensazioni emotive. Non l' impressione formidabile che annichila, ma l' estasi gaudiosa che vi innalza senza bruschi strattoni e senza furiose percosse ai nervi. Inde, benessere psicologico e fisiologico. Noi viviamo nel vestibolo delle Alpi, ma le nostre montagne sono degli incantevoli « beffroi », degli ideali osservatori, delle specole privilegiate che ci permettono di scan-dagliare tutto un mondo di sogno, senza correre l' alea del pericolo, e che l' Alpe ci elargiscono, forse, la parte migliore, dalla quale esula la minaccia immanente, lo sforzo estenuante e micidiale, la lotta a corpo a corpo col monte irriducibile, l' eccesso sportivo, la smania del record antialpinistico, la esagerata velleità acrobatica e la non sempre giovevole iperacutizzazione di tutte le facoltà volitive ed energetiche. I maligni diranno che i Ticinesi non amano troppo le stigmate della montagna: le spellature, le blefariti, le oftalmie, gli erictemi solari. Niente di men vero. Ma il nostro alpinismo è, per natura e per tradizione, svuotato da ogni forma eccessiva e si contiene nell' orbita di sani precetti di prudenza, di moderazione e di giusta misura. Poi, noi preferiamo amare la montagna, anzichè temerla. Accordarci con essa, e non già sfidarla. La lotta è animosità, è odio. Psicologia elementare. Tutto ciò che ci induce a combattere, ci induce, in certo qual modo, ad odiare. Non sarà l' odio torbido, bieco e cattivo, ma sarà sempre un movimento di ostilità e di astio che ci costringe a forzare la nostra anima ed a violentare il nostro temperamento. Alpinisti sui generis. Sia pure. Noi siamo piccola ed umile gente, e, come tale, restiamo al « quia ».

Dieci apparenze umane salivano nella luce melata del primo mattino per il sentiero a mezza costa che dalla trogloditica cascina di Robiei sale al Poncione di Braga. Dieci soci del Club Alpino Svizzero, Sezione di Locamo. I più volonterosi, i più convinti, i più appassionati, gli immancabili partecipanti a tutte le escursioni indette dal nostro sodalizio. Avevano passato una notte quasi bianca nell' angusto ricovero, troppo stretto e troppo zeppo. Ma la prospettiva della radiosa ascensione li elettrizzava: il giaciglio mal-comodo, l' aere viziato, l' antro fosco e fumoso erano già dimenticati in quel tuffo in pieno nell' aria frizzante del ghiacciaio, sotto quel bacio aggressivo del profumo della flora alpina rorida di brina notturna.

Dall' alto del costone del Braga che scoscende sulla Val Bavona, tutto trapunto di stelle alpine che sembrano rubare il nivore dei loro petali di velluto all' antistante ghiacciaio del Basodino, noi cercavamo di indovinare, dietro il velo di bruma che ancora affogava le valle, il lungo cammino percorso alla vigilia. E riandavamo la piana di Foroglio conclusa in una chiostra di rupi, con le sue frazioni gaie di geranii e di roseti, vigilate da minuscoli campanili graziosi come giocattoli, con la sua soffice, agile ed altissima cascata e col suo ponticello cavalcante il torrente; l' aprico abitato di San Carlo; la conca di Campo e le gole della Bavona mugghiante per la sua scalea granitica, con le sue acque volatilizzate in pulviscolo dall' impeto dell' avanzata; il pittoresco e tortuoso sentiero che dai primi contrafforti del Braga si arrampica all' alpe di Robiei, che avevamo lasciata sotto di noi tutta fremente per l' algido bacio del torrente sventagliantesi sul pianoro erboso e digradante ai margini del costone in una rombante successione di balzi leonini.

Innanzi a noi, il Basodino, questo formidabile ed impressionante monumento di architettura alpestre dalla caratteristica conformazione che con-corre a formarne e stabilirne la possente individualità, si svela in tutta la pacata e solenne maestà della sua enorme mole, delle sue forme decise e dei suoi mirabili contorni. La sua livida muraglia ha, in questo momento, dei riflessi e delle trasparenze di lucido alabastro. Lo si direbbe un immenso piedestallo squadrato da titani per foggiarne un altare propiziatorio alla misteriosa ed immanente divinità della montagna. I suoi fianchi altissimi che sorreggono il suo stupendo ghiacciaio, aereo come un iceberg polare, immacolato come uno sterminato blocco di cristallo, cadono con vertiginose verticali sino all' estremo fondo della valle. Al lato, immediatamente attiguo, in una promiscua intercompenetrazione di elementi, si svetta il ghiacciaio di Kastellhorn, la cui forma fa ricorrere con la fantasia ad una coppa di champagne dall' orlo trafoccante di candida ed effervescente spuma. Al nostro fianco, dalla parte opposta della conca di Robiei, comincia ad affacciarsi il piccolo ghiacciaio di Cavagnoli, la cui coda divalla al tragico e misterioso Laghelto Bianco, rannicchiato in un' ansa della montagna. Ed ecco il pizzo di S. Giacomo e la vetta del Cristallina. E dietro a questi estremi baluardi del Ticino si svettano i gruppi del Sempione e della Furka. Ecco il Lago Nero che custodisce fra le pareti rocciose, nelle quali è profondamente incassato, una eco multipla ed armoniosa. Il sole nascente imbiondisce gli ammanti niveo-glaciali; li tinge di rosa e di porpora; dà rilievo saliente alle vette, alle giogaie, arrotondisce le cuspidi, mammella i massicci, allunga ed affusola i picchi, incide i colli, fa sfavillare i dossi erbosi, paglietta le balze granitiche venate di quarzo e di mica, e getta tremule iridiscenze sulle volute delle acque cadenti.

La salita diventa mano mano più rude. Alle balze verdi, alle roccie tappezzate di muschi e di licheni, al sentiero terroso bordato di eriche, di genziane e di soldanelle sono successi i primi nevati, le prime sassaie, i primi campi di roccia sfaldata. Comincia l' affascinante regno rupestre. La roccia viva, nuda, corrosa, scanellata e tormentata, in tutta la sua caratteristica teratologia di alta montagna. La roccia ripida domanda, ora, un pò di tecnica e un pò di tattica alpinistica, il lavoro simultaneo e concorde delle braccia e delle gambe. I fulvi lastroni granitici che compongono i fianchi del Braga, inclinati lateralmente, si presentano come il vago « plissage » di una toeletta femminile. Bisogna scalarli con una certa snodatura di tutto il corpo, attac-carli con energia, con occhio vigile e muscoli saldi. I nevai diventano sempre più erti e scoscesi. Sono lunghi sdruccioli incassati fra le linee delle scogliere, che costituirebbero la più ebbra e deliziosa discesa, ma che in salita occorre tagliare faticosamente, in senso diagonale.

Sotto la vetta la comitiva si divide in due gruppi: i rocciaioli attaccano la cima di fronte, fra le fenditure della parete quasi verticale, mentre i glacia-listi rimontano la spalla orientale, abbondantemente nevosa sul basso, tutta sbrecciata nella sua parte superiore e in qualche punto faticosa ed insidiosa per la instabilità delle sue roccie mobili. Ci ritroviamo tutti sull' estremo tondeggiante cocuzzolo. Par di trovarsi sulla cupola di una cattedrale, e di passeggiare sui suoi vertiginosi spioventi. II colpo d' occhio è impagabile. La giornata è splendida. Sono le 9 del mattino. E, salvo errore, sono 2867 metri.

Si trascorrono due ore meravigliose sotto il sole che martella i ghiacciai con la forza sempre crescente dei suoi raggi perpendicolari. La conca di Robiei e gli alpi della valle di Peccia sfavillano come fucine di ciclopi. I due laghetti hanno lampi intermittenti di eliografi e di specchi ustori. I quattro ghiacciai che concludono l' alto vallone sembrano animarsi di una vita misteriosa e trascendente, e l' occhio sembra quasi percepire una apparenza di movimento nelle loro bianche masse puntate verso l' orgiastico contrasto dell' infinito azzurro. Il Cristallina si svetta più agile e più svelto al disopra dei suoi contrafforti. La cresta meridionale del Braga sembra una teoria di damine composte in una languida figura di minuetto e pietrificate nel soave inchino dettato da una battuta di Boccherini. Al di là dell' ultima catena dei monti ticinesi è tutta una ondulazione di vette immacolate. Si profilano i gruppi del Rosa, dei Mischabel, il bianchissimo Weisshorn, i gruppi del-l'Aletschhorn, del Finsteraarhorn, del Lauteraarhorn, la magnifica ed armoniosa Jungfrau, accanto al burbero Mönch. Poi il Bernina, 1' Ortler, il Disgrazia. Più vicini lo Scopi, il Medel, l'Adula e il Tödi. In una linea concentrica, nettamente circolare come il contorno di un immenso cratere spento entro il quale il Braga si erge come un cono vulcanico, si disegna limpidamente il sistema orografico della Valle Maggia.

Profumo di roccia scaldata. Potente sensazione di aereo. Panorama immenso. Tre note fondamentali: bianco, verde ed azzurro. Tutte le « nuances » della roccia: nero, grigio, ferro, ossido, ocra rossa, agata, terra d'ombra, color fumo di sigaro, giallo-isabella, verde-bottiglia. Una fantasia cromatica meravigliosa, che la luminosità e la trasparenza dell' atmosfera rendono più viva e più impressionante.

La discesa per il versante che digrada alla Valle di Peccia è facile, variata, pittoresca e quanto mai divertente, sia che si discenda dai dirupi della parete meridionale o dalla ripida spalla orientale. Un alternarsi di tratti nevosi, di lastroni di granito, di torrentelli vorticosi ingrossati dalla calura pomeri-diana, di balze, dossi, eminenze, pianerottoli susseguentisi a gradinata senza fine.Valloncelli incassati entro profonde lacerazioni del fianco della montagna, roccie vagamente incrostate di fiorellini come mosaici, acque saltellanti e gianguglianti sopra un ritmo unico. Poi i fianchi della montagna si spianano ai primi pascoli, sotto le prime conifere, per inabissarsi ancora, per quasi mille metri, in una valletta imbutiforme, dalle altissime e glabre pareti di calcare, che ci rotola rapidamente, col cuore alla gola ed i precordi in sussulto, sino al Piano di Peccia.

Qui, amabili festose accoglienze da parte di un anziano consocio, il dottore Franzoni, che ci attende al varco e che non ci molla se non dopo averci fatto tutti i possibili onori della sua casa signorilmente ospitale. Come a dei trionfatori. Magellani in sedicesimo, non avevamo forse fatto, in un giro del sole d' agosto, il viaggio di... circumnavigazione della bellissima Valle Maggia? Dunque? A tout seigneur tout honneur! Mario Quaranta

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