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Una «prima» al Pizzo del Prete

Hinweis: Questo articolo è disponibile in un'unica lingua. In passato, gli annuari non venivano tradotti.

Di Augusto Giugni.

Il 1932 era stato, alpinisticamente, un anno buono per me; mi aveva riservato soddisfazioni speciali: in aprile, la direttissima al San Salvatore ( prima salita non contestata, fin' ora, da nessuno ); in agosto, la cresta nord del Dammastock ( nuova per tutti noi ) e, in settembre, la « prima » per parete nord al Pizzo del Prete ( « Piz du Prevat », come dicono lassù, forse perché assomiglia al tricorno dei sacerdoti ).

Questo pizzo, dalla forma acuminata, che richiama un po' quella dei Dru, e che specchia la sua cuspide ardita nel sottostante laghetto di Campolungo * ), aveva esercitato su di me un vero fascino, fin dalla prima volta che l' avevo visto in una foto di Guido Ferrazzini, vero artista nella fotografia di montagna. ( E strano però che la bellezza formale della montagna possa avere una parte così preponderante nella scelta delle salite, precedendo anche l' aspro gusto della difficoltà; qui poi c' erano l' una e l' altra. ) Mi trovavo, durante quell' estate, in vacanza a Prato-Leventina; potei così contemplarlo parecchie volte dall' alpe Campolungo; e da ogni visita tornavo più infervorato e più deciso che mai a salirvi per via nuova. Scrissi ali' amico Tita, il quale fu subito d' accordo; aspettava solo l' occasione opportuna per raggiungermi. E l' occasione venne: una gita ufficiale del Club Alpino di Lugano al Campo Tencia doveva portarmi lassù il mio indispensabile compagno con un altro amico carissimo, che volle unirsi a noi, per questa impresa non ordinaria.

Un' avventura dolorosa, e cioè una disgrazia che avrebbe potuto avere conseguenze più gravi, avvenuta proprio durante quella escursione, mise in forse la nostra impresa! I due amici, che dovevano salire con me al Pizzo del Prete, si sentivano moralmente obbligati a non abbandonare, prima che fosse dichiarata fuori pericolo, la persona che si era ferita al Campo Tencia. Ma anche questa difficoltà fu superata, poiché ella stessa li convinse a venire; e una bella sera i miei amici mi raggiunsero a Prato.

Al mattino verso le 5 partiamo, ancora assonnati, mal disposti e anche un po' nervosi. La disgrazia della domenica avanti avrà il suo riverbero su tutta la salita. Arriviamo verso le 7 al dolce Lago Tremorgio, accolti festosamente dal « Mocc », l' ospitale guardiano della cabina di controllo, il quale ci offre un caffè ben caldo, poi, su per l' erto sentiero che mena ali' alpe Campolungo; dopo un' ora circa lo sorpassiamo, sempre silenziosi e rabbuiati. Vicino al passo omonimo prendiamo a sinistra per un sentieru-colo da capre, e arriviamo al punto di attacco, a perpendicolo della cima maggiore.

Lasciamo gli scarponi, i sacchi coi viveri e prendiamo con noi soltanto, in un piccolo sacco, una macchina fotografica, un po' di cioccolata e una corda supplemento. E si parte: Tita in capo alla corda, io in mezzo, Aldo terzo. Sono le 10.

Ci mettiamo nel canalino, assai ripido, che fa da colatoio fra le due anticime, evitando però la neve che si trova allo sbocco, per non bagnare i peduli; ma siccome il canalino è tutto sbalzi e non offre che scarsi appigli smussati, Tita si scosta un po' verso sinistra; l' uscire però dal canalino non riesce tanto facile. Come ha fatto a passare quel demonio di Tita? Gli appigli, infatti, sono abbastanza ipotetici! e Aldo non vi si adagia, ma prosegue a lato. Cosi però non si può andar avanti e il caro dissidente deve adattarsi, un po' a stento, venire dalla nostra parte. Proseguiamo per un tratto abbastanza facile; poi dobbiamo rallentare, perché la roccia si è fatta più ripida e più insidiosa, essendo ricoperta di muffa viscida. Con grande cautela, si sale di ripiano in ripiano, o meglio, di gobba in gobba;.. .ma eccone una più restìa... i ripetuti sforzi di Tita riescono infruttuosi. Mentre riprende fiato, tento a destra, e riusciamo su di un ripianino, che ci permette un po' di sollievo; siamo circa a metà parete. Mentre riposiamo, faccio qualche fotografia della crestina affilata e frastagliata, che scende quasi a picco dalla cima più alta ( chissà se, un giorno, potremo salire da quella parteEd ora si discute per scegliere la nuova rotta: seguiremo il canalino, sbucando poi tra le due anticime, oppure prenderemo direttamente, verso la vetta? Prevale la proposta del canalino, che sembra più prudente; faremo poi la traversata dell' anticima, che assomiglia ad una fiamma di pietra. Dopo alcuni metri di salita troviamo una placca liscia e senza appigli. Mentre Aldo aspetta, noi la sorpassiamo per aderenza e arriviamo così ad una buca, che si trova ai piedi di un « camino », dalle labbra arrovesciate, strapiombante e tutto bagnato.

— Caro Tita, di là non si passa...

— Voglio provare.

— Ma, caro mio, come faccio ad assicurarti, con tutta' sta roba liscia e viscida; se scivoli, cadi nel vuoto, e noi con te...

— Vedrà che non cadrò.

Tita mi sale sulle spalle; poi, premendo con la schiena contro una parete e coi piedi contro l' altra, si sforza di salire, raspando penosamente; io m' in nel fondo del camino per tentare, a questo modo, di assicurarlo. Qualche sasso sibila nell' aria... Io ne sono al riparo, ma Aldo, che mi ha raggiunto, non può trovar posto nella nicchietta occupata da me. Allora gli dico di scendere ancora là dove il canalino s' incurva, e così Tita può sbarazzare il camino da certe scorie pericolose. Ma il guaio maggiore si è che, arrivato in cima, dopo grandi sforzi, è fermato da un blocco, poco rassicurante, che gli impedisce di uscire; tenta a destra poi a sinistra esponendosi anche troppo, ma non riesce a superarlo.

— Provati a passar sotto.

— Non posso, la fessura è troppo stretta; mi mandi su la corda supplementare; voglio provare a lanciarla sopra il masso.

La domando ad' Aldo, che la porta a tracolla; egli sale fin sotto la placca per darmela. Tento a più riprese di farla giungere a Tita, ma sempre invano; e allora ci sleghiamo, Aldo ed io, dalla corda, che ci congiunge a Tita; l' attac a quella, e così egli può tirarla facilmente a sé. Aldo, pochi metri sotto di me, è aggrappato ad un buon appiglio; Tita si è cercato la miglior posizione di sicurezza, che gli conceda la sua situazione precaria; e lancia la corda sopra il masso; ma essa ricade miseramente; torna a lanciarla con maggior forza, ancora senza risultato; riprende fiato... e noi pure, che abbiamo seguito ogni sua mossa con trepidazione, trattenendo il respiro. Torna alla carica!... la corda non s' aggancia... però essa stacca una grossa scheggia! Ne vedo con terrore la traiettoria!... e grido disperatamente ad Aldo: « Sasso I » Egli non può scostarsi e si schermisce col braccio, il quale, solcato dolorosamente dalla pietra acuminata, attutisce il colpo alla testa!

Mi grida che si sente male... ed è slegatoc' è pure Tita in cattiva postura... non può più tenere, si sente scivolare... se cadesseegli vorrebbe tentare di scendere a corda doppia, facendola passare attorno ad un sasso; ma questo si muove...

— Non puoi scendere diversamente ?!

— No, non posso, i peduli non tengono più, sono tutti bagnati.

Intanto Aldo invoca soccorso perché si sente venir meno... Cosa fare ?!

Grido a Tita di resistere ancora un momento e di gettarmi una corda, per assicurare il compagno.

— Coraggio, Aldo, ancora uno sforzo; attaccati a questa corda, così potrai scendere fino al terrazzino e riposarti.

Mentre lascio calare piano piano l' Aldo, seguo con ansia spasmodica la difficile e problematica manovra di Tita!... E intanto la fantasia vigliacca mi ossessiona coll' immagine della sua caduta nel baratro!... e mi rammenta che il padre di Aldo è morto tragicamente!... che a sua madre non resta che lui!...; lotto disperatamente per liberarmi da queste tetre visioni!... Ciò nondimeno, come fa bene trovarsi così, di fronte alla morte, in piena lucidità di mente: come la vita appare sotto un' altra luce! Finalmente Tita mi grida:

— Il sasso gira, ma non si stacca, ora scendo.

— Non fidarti troppo però; aspetta che provo a tirare la corda; mettiti al riparo.

E, con tutta cautela, prima adagio e poi più forte, tiro i due capi della corda, avvolta attorno al masso; questo non si sposta.

— Tita, puoi scendere.

Ad Aldo, che è supino sul piccolo ripiano, grido:

— Coraggio, fra poco saremo da te.

Ma quando Tita mi è finalmente accanto, tentiamo invano di ricuperare la corda doppia; non scorre a nessun costo... si vede che si è incuneata tra il sasso e la parete. Tita vuoi salire a liberarla:

— Lasciala stare, caro mio, è meglio sacrificarla.

— Ma no, fard presto a salire e a scendere, ora che c' è la corda.

E infatti quel bravo salva anche la corda. Scendiamo verso Aldo, il quale ci preoccupa alquanto! Egli ci prega di lasciarlo lì!... e di proseguire da soli...

— Ma sei matto ?!

— Non dirlo neppur per celia — ora riposeremo tutti, che ne abbiamo bisogno, e poi vedrai che andrà tutto bene. Stai già meglio, vero?

— Sì, ma è stato un brutto momento... vedevo tutto rosso... mi girava la testa... mi sentivo mancare...

— Bè ora sta tranquillo... il più brutto è passato, va. La ferita non è grave, qualche massaggio e poi sarai a posto.

Gli facciamo una fasciatura sommaria; poi arrotoliamo la corda di supplemento e facciamo asciugare le scarpette di roccia. Io poi, mi trovo bagnato da tutte le parti...; lo stillicidio e lo scolo della roccia, in quell' ora che ho passato incuneato nel camino, mi hanno inzuppato; sento qualche brivido. Aldo va meglio; ci siamo di nuovo incordati, ed affrontiamo l' altro itinerario, già ventilato nella prima sosta sul ripianino ( Aldo aveva bensì avanzato la proposta del ritorno, ma venne scartata immediatamente ). Prendiamo dunque a sinistra; la parete si fa più erta e più esposta, ma gli appigli sono migliori; assicuriamo sempre con particolare attenzione Aldo, ancora dolorante.Vicino alla bocchetta, che sparte la vetta dall' anticima, troviamo un piccolo strapiombo, che Tita supera salendo sulle mie spalle, e sbuchiamo in una specie di piccola grotta. Ci sediamo volentieri e prendiamo anche un po' di cioccolata ( mezzogiorno è già passato da qualche ora... ), faccio una fotografia verso il basso, con un tipico effetto luce: l' ombra oscura delle tre guglie spicca sul pietrame detritico, abbagliante di sole.

Aldo sembra essersi rimesso quasi completamente; è ancora pallido però e un po' stravolto... Sulla carta della cioccolata mettiamo qualche indicazione della nostra « prima » con la data e i nostri nomi; e l' affidiamo ad un mucchietto di sassi. Ed ora un ultimo sforzo per raggiungere la selletta, ormai vicina. Ma la montagna si difende strenuamente fino ali' ultimo. A pochi metri dallo sbocco, troviamo un nuovo strapiombo. Tita si sposta a sinistra e sale entro una stretta fessura diagonale, che permette appena il passaggio di un braccio; lo seguiamo con grande cautela: un masso sporgente ci sbarra la via... Tita prova a superarlo, salendo sulle mie spalle, ma non trova appigli...; egli è fuori, sospeso nel vuoto... e fruga nervosamente per trovare qualche asperità; cerco di sporgermi anch' io, fin dove posso arrivare... m' allungo in un estremo sforzo, mentre Aldo, nascosto fra le mie gambe per proteggersi da eventuali cadute di pietre, guarda con occhi stupiti, le macchie di sangue sulla sua giacca a vento ( sono quelle di domenica! 1 e alcune di oggi !).

Tita sale ancora un po lo sento ansimare...; riesce ad afferrare uno spuntone; vi si aggrappa, si protende in un estremo sforzo, mentre i suoi scarponi trovano un lieve appoggio sulle mie mani irrigidite; il sasso cede! ma ormai egli è fuori; è in piedi, avanza sicuro; ci aiuta a superare quel brutto passo. Esco finalmente da quella bolgia « a riveder le stelle »... no, meglio, il bel sole di Dio! Tita è sceso verso Aldo, che sbuca fuori dalla voragine, e li fotografo in uno scorcio impressionante.

Percorriamo rapidamente la crestina aerea, che ci separa dalla vetta, beandoci di sole, di azzurro, di aria, di spazio, di vita e di vittoria. Sono le 14.

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