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Val Chironico

Hinweis: Questo articolo è disponibile in un'unica lingua. In passato, gli annuari non venivano tradotti.

Di Bruno Rainen.

Sull' imbrunire, in una calma sera di settembre. Il treno, snodandosi sulla tortuosa linea collocata fra le impervie gole della Biaschina, fila veloce verso il Gottardo. Passano una dopo l' altra le gallerie elicoidali. All' uscire dalla penultima, mi affaccio al finestrino di sinistra, poichè una montagna di singolari fattezze fa capolino fra uno sperone roccioso ed il limitare di una foresta di frondosi castagni e par che da lontano mi voglia augurare buon viaggio. Quel saluto furtivo è il benvenuto de' miei anelati e troppo fugaci ritorni al Ticino ed il caro arnvederci delle partenze. Se piove, nevica o basse nuvole la coprono, lascio la mia cara terra con un certo qual senso d' insod.

Noi le amiamo tutte le montagne. Siano esse modeste montuosità prealpine, selvaggi picchi rocciosi od imponenti massicci nevosi. Nascondiamo però nei recessi dei nostri sentimenti estetici una simpatia più forte per questa vetta, un amore più grande per quella vallecola.

Qualche lustro è trascorso dacchè, durante le mie vacanze quale ospite ben accetto del paesello materno, mi colpì il primo raggio che doveva far volgere la mia infantile attenzione a quella montagna. Tutta nera, solcata da canaloni ricolmi di neve, avvolta dal velo di mistero delle leggende paesane, sembra vi voglia cascare addosso da un momento all' altro. Nei bei tempi delle corse spensierate sui soffici prati che fanno corona al villaggio di Chironico, fra campi di patate in fiore o segale matura, coll' animo nuovo a tutto e pieno di timori, accresciuti dalle favole di nani, spazzacamini e streghe, raccontate dalle mamme buone e disperate per ottenere di tanto in tanto l' obbedienza dei loro irrequieti figlioli, quella montagna era per me una minaccia. Quell' omone nero, tutto solo lassù nel cielo, era colui che doveva scendere fra poco per rapirmi. Discorrere di lui e divenire il ragazzo più quieto era tutt' uno. Nell' attraversare il ponte che allaccia i casolari alla solitaria chiesa del villaggio, me ne guardavo bene dal volgere lo sguardo a destra. Come di solito mi ero comportato male e lo spauracchio era lassù ad osservarmi minaccioso. Al sopraggiungere dei primi freddi settembrini, rifatti i bagagli, si partiva per la città ed io ritornavo ad essere monello fino all' inizio delle prossime vacanze. L' Uomo di Campionigo non si scorgeva più ed io ero felice I Col veloce passare degli anni, scomparì la credulità e si formò il giudizio. Si rese palese quell' amore che portiamo innato in noi, impaziente di manifestarsi e svilupparsi. L' amore per le montagne. La chiusura delle scuole era salutata con entusiasmo. Di ritorno alla libertà dei monti, avrei potuto guardarle sempre quelle note e care montagne, toccarle da vicino, percorrere i loro ombreggiati sentieri, serpeggianti fra profumate foreste di pini e larici, camminare sugli ultimi nevai risparmiati dall' inesorabile sole di luglio, ascoltare come in sogno la voce eterna del torrente che nasce fra i loro dirupi e scende, di balza in balza, al piano. Le acque del Ticinetto erano, a quei tempi beati, oggetto di molteplici fantasticherie. Mi rivedo ancora in un caldo pomeriggio estivo, seduto sulla riva ad ammirare ed invidiare quelle limpide ed irrequiete acque. Fantastico sull' origine e sulla fine del fiumi-ciattolo. Nato dallo sciogliersi della neve in uno dei canaloni che si vedono lassù, balzando di masso in masso, poi dalla rupe altissima della cascata in fondo alla valle, rinchiuso a viva forza nella condotta della centrale elettrica, disperso fra la massa irniente del fratello maggiore, dal quale riceve il nome sotto forma di vezzeggiativo, l' attende alla foce un placido ed azzurro lago. Ma il suo cammino non è ancora terminato. La sua meta è nel mare immenso, dove si danno convegno tutti i rivi per raccontarsi a vicenda le peripezie del lungo viaggio. Quante curiosità, quante novità, se potessimo seguire le acque del Ticinetto! Quante cose inesplicabili per la mia ancor troppo giovane fantasia. Una mucca viene a dissetarsi all' onda ed interrompe le mie fantasticherie; mi guarda co' suoi pazienti e rassegnati occhi, beve e va alla stalla. Il sole tramonta lentamente; per che voglia soffermarsi un tantino ancora, tinge di rosa co' suoi ultimi e blandi raggi le vette lontane, allunga le nere ombre terrene e poi scompare. Ritornerà domani ancora. Dagli anneriti fumaioli del villaggio sale il primo fumo azzurrognolo che si perde presto nella bruna luce della sera. Una voce mi chiama ed io ritorno a casa.

Chironico rimane completamente celato agli occhi del viaggiatore che transita sul fondovalle. I primi abitanti vennero a stabilirsi sul delta del Ticinetto coll' intenzione di sottrarsi alle scorribande di triste memoria di eserciti nemici ed amici che transitarono in gran numero per la valle con scopi di offesa o difesa, a seconda delle epoche e delle dominazioni, lasciando però null' altro che ingrati ricordi di devastazioni, rapine e miserie. Come tant' altri piccoli villaggi leventinesi, gode ora della quiete che la sua strategica posizione gli procura. Non ancora tocco dal ritmo travolgente del progresso, l' unico avvenimento importante del giorno è l' arrivo dell' auto-corriera, successora alla vecchia e scricchiolante diligenza. Viottoli tortuosi, finestruole ornate di tendine bianche e gerani rossi e, dietro a questi, due occhi neri che guardano furtivamente in basso per osservare ciò che succede sulla strada. Per le vie, molte donne, molti bambini, pochi uomini. L' emi decima anche qui la popolazione maschile. La vista di una schiera di donne perennemente affaccendate in ogni sorta di lavoro induce coloro che non conoscono perfettamente la situazione demografica ticinese a mali-gnare sulle qualità lavoratóri del sesso forte, il quale viene descritto, non di rado ed a torto, come solerte frequentatore di bettole ed amante del dolce far niente. Chiedete conto a quelle lavoratóri dei loro mariti. Vi rispon-deranno con un significativo cenno della mano e due parole piene di mestizia. Sull' alpe o emigrato!

Quassù l' alpinista è ancora cosa rara; fra alpinisti e geoioghi ne passano una ventina all' anno. Questa è appunto la ragione per cui quei pochi vengano ancora considerati, se non come totalmente pazzi, almeno come anormali. Che si possa andare per divertimento fra i dirupi di Val Chironico è cosa del tutto inconcepibile per quella gente in continua lotta coll' alpe. Un primitivo capraro si rendeva interprete della sua categoria di mortali scrivendo ingenua-mente nel libro che si trova sulla vetta del vicino Pizzo Forno alcune righe indirizzate agli alpinisti ricchi e buontemponi. Lo individuai fra i casari dell' alpe sottostante. A tanta ingenuità spiegai che noi non andiamo in montagna perchè ricchi e neppure perchè buontemponi. Quanto avrei pagato, alcuni anni più tardi, per averti, o umile guardiano di capre, accanto a me ad una conferenza di un illustre avvocato milanese. Questa sua brillante asserzione avrebbe valso anche a te, innocuo mangia-alpinisti:

« Lo spettatore ignaro, che vede rientrare nel villaggio alpino, mentre si spengono le ultime luci del giorno, l' alpinista che ritorna da un' aspra ascensione, col volto bruciato, col passo pesante di chi si è disavvezzato per lunghe ore dalla via facile e piana, non ravvisa in lui che un povero essere affaticato, a cui offrire un pietoso consiglio di riposo e di ravvedimento. Non sa, quello spettatore, che egli ha invece davanti a sé un gran signore; non sa che in quell' occhio, pur sotto il velo della fatica, lampeggia il riflesso delle più superbe visioni che la natura possa offrire; non sa che quell' uomo, l' ora trascorsa sulla vetta conquistata, ha potuto realizzare il sogno di Faust, arrestando nel suo volo di bellezza l' attimo fuggente e fissandone per sempre nel cuore il segno luminoso. » Sui ripidi e sassosi sentieri che adducono ai monti sovrastanti incontrate qua e là una donna curva sotto il peso della gerla. Vi guarda con un' espres mista di timore e di rispetto, saluta e prosegue frettolosamente. Altre urgenti occupazioni l' attendono al piano. Ai lati del cammino ed in vicinanza degli abitati sorgono multiformi cappellette. Di tanto in tanto s' av loro una vecchierella col passo che gli anni le acconsentono, s' inginoc e prega. Forse per una figlia lontana, forse per un figlio che non rivedrà mai più. Quei miseri templi di culto, che vanno sgretolandosi cogli anni, sono testimoni fedeli e discreti di tanti dolori e muti elargitori di conforti spirituali.

Mille metri al disopra del villaggio, un gruppo di case si aggrappa disperatamente ai magri pascoli al termine del fitto bosco di larici. Hanno il carattere prettamente leventinese. Costruite in legno, annerite dal sole che le vede da molti anni, si stringono con amore e fedeltà alla loro chiesuola tutta bianca. Quando la campanella diffonde nella valle silenziosa il suo suono argentino, gli abitanti lasciano frettolosi e compunti le case e scompaiono sotto il porticato. La fede dà loro la forza di trascorrere quella vita di sacrifici e fatiche. Sperano tutti in una meritata ricompensa d' oltre tomba. Doro si chiama quel villaggio a quasi duemila metri di altitudine. I campi di segale matura che gli fanno da aurea cornice nel tardo estate e la bontà degli abitanti gli diedero il nome. La tenacia umana è qui in continua contesa colle avversità della natura. Dove la conformazione dei ripidi fianchi della valle appena lo permette, il terreno viene utilizzato; sorge un monte — e per monte s' intende lassù un raggruppamento di fienili e stalle circondato da campi e prati — il tutto di una fertilità relativa; in alcune stagioni cattive le coltivazioni non arrivano neppure a maturanza. Dove il terreno manca, i campi sono stati costruiti con terra trasportata a forza di spalle, in una geniale simmetrica sovrapposizione.

Oltrepassato il limite delle foreste e degli alpeggi, si entra nella pacifica regione dei muschi, delle morene e dei laghetti alpini. Se conoscete la valle saprete anche scoprire i più belli, i quali non sono talvolta che una semplice pozzanghera di alcune decine di metri quadrati formata, sul terreno torboso, dall' improvviso sciogliersi della neve. Sono, nella loro semplicità, di un' incomparabile bellezza. La loro limpidezza cristallina è lo specchio della vita che si svolge attorno; i picchi che fanno loro corona, le capricciose nuvole che si rincorrono nel cielo, la timida pecorella che sussulta al rumore di un ranocchio che salta spaventato nell' acqua, il beato alpinista che sosta a lungo per contemplare tanto prodigio della natura, tutto si riflette nell' acqua in un curioso capovolgimento. La bruna rana alpina, ragni selvatici e libellule dorate sono gli unici, bizzarri esseri viventi che li popolano. L' adattamento a bacino idrico del maggiore dei laghetti della valle non ha, per fortuna, oltremodo nociuto alla sua bellezza. Tornando qualche anno dopo per godere la quiete che regna nell' ambiente di un lago, vi trovate di colpo davanti ad una barbaria del progresso umano. Una prosaica diga in cemento armato, di enormi dimensioni, è stata rizzata a precludere il naturale sfogo delle acque. Il lago è aumentato di proporzioni, ma ha perso irrimediabilmente il suo fascino. Chiniamoci deferenti davanti alle incalzanti necessità dell' odierna civiltà e passiamo oltre.

Chi ebbe la fortuna di trascorrere qualche giornata fra le Dolomiti avrebbe, percorrendo la Valle di Chironico, la grata sensazione di ritrovarsi nel regno incantato dei Monti Pallidi. Chi fu nelle Dolomiti Cadorine vada a sedersi al tramonto all' estremo limite del delta del Ticinetto. Di laggiù, contem-plando il laghetto collo sfondo austero dell' Uomo di Campionigo, gli parrà di rivedere i noti e pittoreschi dintorni del Lago di Alleghè, dominato dalle strapiombanti pareti dell' arcigna Civetta.

Ogni dolomite ha le sue bizzarre leggende. L' Uomo di Campionigo ha anch' esso le sue. Andate a Chironico e fatevele raccontare da qualche vecchio pastore. Dovrete però prestare la massima attenzione e dargli la convinzione di non essere deriso se volete ch' egli ripeta le fiabe che era avvezzo a sentire fin dall' infanzia. Quei buoni alpigiani dimorano a lungo nelle città per trovare il lavoro che manca nelle valli e sono avvezzi allo scetticismo che invade quegli abitanti, rispetto alle antiche credenze popolari. Ritornati fra le montagne, non si piegano facilmente a raccontarle in tutti i loro particolari ai villeggianti ed alpinisti curiosi. Il sentirle nella loro semplicità e bellezza è privilegio delle persone di tutta confidenza. Ogni leggenda ha stretta relazione colla discendenza, col passato e coi costumi della popolazione. Un barbuto pastore mi narrò le più note un giorno in cui capitai nel suo baitello per cercare riparo da un furioso temporale. Per intenderle bisognava essere presenti al racconto, nel cascinale basso ed affumicato, illuminato sinistramente dai lampi e tremolante ad ogni colpo di tuono. In mezzo a tanta desolazione, mentre le nebbie si rincorrevano nelle gole ed il sibilo del vento copriva il muggito del fiume, m' è parso d' assistere sgomento alla corsa delle fate sulle creste, alla danza diabolica dei folletti, alle pro-cessioni delle streghe attorno ai laghi.

In una limpida notte d' aprile, mentre la luna, salendo lentamente dietro la Montagna di Sobrio, andava a spiare le sue coppie d' innamorati e ad incutere timore ai cani da guardia colle sue sinistre e fredde ombre, sedevo accanto ad un arguto vecchietto sul parapetto della strada che porta alla melanconica e spopolata frazione di Grumo. Sgranellando il rosario delle sue reminiscenze giovanili, mi volle raccontare quanta venerazione si avesse al tempo della sua giovinezza per l' Uomo di Campionigo. Una venerazione frammista di commiserazione, che aveva stretti rapporti colla leggenda sulla sorte dello sciagurato Alberto, il quale, venendo un giorno alla caccia dei camosci, incontrò una pastorella, la cui bellezza e bontà erano note in tutto il paese. Invaghitosi d' ella si decise ben presto di condurla all' altare. Già s' andavano facendo i preparativi per le fauste nozze allorquando una lugubre notizia si sparse nella vallata. Un esercito era in procinto di attraversare le alpi. Il passaggio di truppe era un fatto di triste memoria. Chironico godeva il vantaggio della sua favorevole ubicazione, però si temeva l' opera delle spie e degli invidiosi, che avrebbero rivelato agli invasori la presenza del villaggio. Non passò molto e l' avanguardia si presentò in paese al comando di un di-spotico signorotto. Annida, poichè tale era il nome della pastorella, non gli passò inosservata e nulla lasciò intentato per indurla a seguirlo, al suo ritorno, al di là del Gottardo. A nulla valsero i suoi scongiuri. Indispettitosi ai suoi rifiuti e saputo essere ella promessa ad Alberto, fece rinchiudere quest' ultimo in una torre del castello di Bellinzona lasciandovelo morir di fame. Costretta a seguire il principe, la poveretta morì ben presto di spavento e di dispiacere in un castello sito sulla riva del Lago dei Quattro Cantoni.

Da quel giorno in poi fu visto uno scarno spettro umano, vestito completamente di nero, errare disperato fra le montagne della valle ed arrestarsi, sul calare della notte, sul dirupo dove vedesi attualmente l' Uomo di Campionigo. L' accesa fantasia della popolazione corse immediatamente ad Alberto e rivide in quel muto fantasma lo spirito di lui venuto alla ricerca della sua amata. Ella apparse infatti più tardi sotto l' aspetto di un' esile fata dai capelli d' oro, coperta da un lungo manto bianco ed accompagnata da un numeroso seguito di fate minori, cariche di doni che servivano a beneficiare la povera gente. Mentre il seguito si stabiliva sul fondovalle, ella s' intratteneva sulle montagne con Alberto. Ritornava ai primi albori e tutte scomparivano in silenzio. Il mio rozzo poeta delle fate, dal cuore semplice e buono, colle gote bagnate da due lacrimoni scesi velocemente sul viso raggrinzito per tema di farsi scorgere, descrisse il giro percorso dalla coppia di spiriti innamorati, seguendo collo sguardo le creste che fanno corona alla valle fino alla figura umana dell' Uomo di Campionigo, rimasta lassù a testimoniare quella tragedia d' amore.

Fresca mattina di luglio. Festa di luci e di colori. Il sole s' è levato da poco e lancia i suoi raggi indagatori nella valle ancora avvolta dall' ultime ombre della notte che si ritirano velocemente, offese dalla prepotente aggressione del re dei pianeti. Sono seduto su di un aereo spigolo di roccia a duemila metri e riprendo fiato dopo un' arrampicata. Un villaggio s' adagia ai miei piedi; dai camini salgono i primi sottili fili di fumo che si perdono nella luce del giorno che va facendosi. Il nastro lucente del fiume spicca sul verde cupo dei prati. Ho lasciato da due ore la squallida alpe di Campionigo e vado facendo col corpo il ripido cammino che mi porta sull' Uomo di Campionigo e colla mente quello ancor più accidentato che mi riporta fino a quel lontano giorno beato in cui l' ometto m' incuteva tanto timore.

Vent' anni sono trascorsi; settemila giorni fugaci di speranze, illusioni, attese e disillusioni. Giorni infelici, altri pieni di felicità. Tutti quelli trascorsi fra le nostre care montagne appartengono a quest' ultimi!

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