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A primavera vien giù la montagna Cadute di massi: qual è il ruolo del clima?

Nella torrida estate del 2015, alcune frane spettacolari hanno concentrato l’attenzione sullo scioglimento del permafrost. Ma i rilevamenti dimostrano come quest’ultimo svolga un ruolo solo nella minima parte dei casi. La maggioranza di questi fenomeni si verifica in primavera – dopo un inverno freddo.

È sulla bocca di tutti, almeno dalla torrida estate del 2003: il permafrost, cioè quelle zone nelle quali il terreno rimane gelato durante tutto l’anno. Solo ancora 50 anni or sono, in Svizzera questo termine era del tutto sconosciuto. Da alcuni anni, tuttavia, quasi ogni evento naturale nelle Alpi è messo in relazione causale con lui. Fino al punto che persino le frane che nei pressi di Gurtnellen hanno colpito la linea delle FFS – nota bene a una quota di soli 800 metri circa – nei media sono state attribuite allo scioglimento del permafrost dovuto al cambiamento climatico.

Vien però da chiedersi: è corretta, questa colpevolizzazione? Cosa sappiamo oggi degli effetti di temperature, precipitazioni e vento sulle cadute di massi? Esistono delle statistiche sui processi di franamento? Cosa ci dicono i dati storici di questi eventi, anche in relazione al clima precedente? E non da ultimo: quale è il ruolo dei media?

Non è sempre lo scioglimento del permafrost

È indiscutibile che, soprattutto nei versanti esposti a nord, tra i 2500 e i 3000 metri di quota, nelle estati calde il disgelo del permafrost sia all’origine di eventi locali. Lo si è chiaramente appurato nelle calde estati del 2003 e del 2015, ma anche in quella del 2006. Dalla «piccola glaciazione» di 150 anni or sono, il «punto di rugiada» si è innalzato di circa 200 metri, rendendo queste zone soggette a frane. Lo SLF tiene delle statistiche che si riferiscono a un gran numero di attività franatorie generalmente minori che si verificano ad alta quota nei mesi estivi. Che queste interessino le vie d’alta montagna appare ovvio. Tuttavia, ben pochi di questi eventi hanno a che vedere con lo scioglimento del permafrost. A seconda delle condizioni geologiche, anche in alta montagna sono responsabili di questi franamenti i normali fattori meteorologici, come la temperatura e l’alternanza tra gelo e rugiada.

Calma nei periodi caldi

Un esame di poco meno di 200 frane notificate e valutabili di tutta la Svizzera, figuranti nel catasto degli eventi del­l’UFAM, ha permesso di dedurre come circa il 60 percento di tutti gli eventi abbia avuto luogo durante la primavera e l’inverno, cioè nei periodi freddi dell’anno. La valutazione su base mensile di 1668 frane analizzabili ha mostrato che essi si concentrano nei mesi di marzo e aprile (questo nelle regioni più basse) e in maggio, alle quote più elevate. Il mese con l’attività franatoria di gran lunga minore è ottobre. Il numero leggermente maggiore di franamenti registrati in agosto risulta da un cumulo di diversi meccanismi scatenanti, come il vento, lo scioglimento del permafrost e le ondate di freddo nelle Alpi.

Il tempo caldo e umido favorisce i movimenti rocciosi

Il motivo della maggiore attività delle frane nei mesi primaverili va ascritto ai fattori atmosferici (vedi riquadro). Analisi statistiche condotte in Norvegia e in Austria giungono a conclusioni analoghe. E anche le ampie ricerche sulle ferite inferte agli alberi da corpi in caduta nelle Alpi indicano che questo genere di franamenti nelle regioni d’alta quota si verifica in primo luogo nei periodi di minore crescita, quindi in inverno/primavera, e non d’estate. Sia d’inverno sia d’estate, quindi, i periodi caldi danno tendenzialmente luogo a un rallentamento dei movimenti di rocce e montagne, con l’eccezione delle zone soggette al disgelo del permafrost.

Un’analisi degli eventi storici mostra inoltre come il momento dei franamenti nel periodo relativamente freddo tra il 1950 e il 1980, caratterizzato da inverni rigidi, si sia spostato nella stagione più fredda. Ad ogni modo, i dati oggi a disposizione non consentono alcuna affermazione circa l’aumento o la riduzione delle frane in un passato più recente, anche tenendo conto del riscaldamento in atto. Se poi si considerano i franamenti più datati, di epoca preistorica, salta all’occhio come, nei periodi caldi noti degli ultimi 10 000 anni, la loro frequenza si riveli ridotta rispetto a quelle dei periodi freddo-umidi.

Prima i giornalisti, poi il geologo

Diversamente da quanto si pensi comunemente, il riscaldamento climatico dà tendenzialmente luogo piuttosto a una riduzione dei movimenti della roccia, e quindi a un numero inferiore di frane. Questo vale in particolare anche per gli inverni caldi o le primavere che li seguono. Determinante per la frequenza delle frane, accanto alla misura del freddo invernale, è anche la frequenza delle alternanze di gelo e rugiada in primavera o, a quote più alte, d’estate. Un’estate più calda comporta tendenzialmente una maggiore calma dei movimenti della roccia. Tuttavia, la lunga durata del calore estivo rafforza il processo di disgelo del permafrost, innescando in alta montagna un numero maggiore di frane che possono mettere a rischio gli alpinisti, anche se raramente rappresentano un pericolo per insediamenti e infrastrutture. Il cambiamento climatico è un processo lento, proprio come quello di destabilizzazione della roccia. Per questo motivo, il numero delle frane è destinato a cambiare poco anche in futuro, e a orientarsi prevalentemente alle condizioni meteorologiche delle singole stagioni.

Ma come si arriva all’idea diffusa che il numero delle frane sia in aumento? Uno dei motivi principali va sicuramente ricercato nell’atteggiamento dei media. Solo trent’anni fa, le cadute di masse locali suscitavano ben poca attenzione nell’opinione pubblica. Oggi, portali online e televisioni private pagano moneta sonante per foto esclusive o indicazioni concernenti un masso caduto su una strada o una frana. E non di rado, il geologo prontamente convocato finisce per arrivare sul luogo solo dopo i reporter della TV.

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