All’Adula sulle tracce di padre Placido | Club Alpino Svizzero CAS
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All’Adula sulle tracce di padre Placido Escursione in quota alle sorgenti del Reno posteriore

D’autunno, la parte più interna della Zapporttal diventa quieta e solitaria. Quasi altrettanto solitaria di quel giugno del 1789, quando il monaco grigionese Placido Spescha la percorse per poi posare per primo il piede sull’Adula.

«Il giorno successivo, il tempo era incredibilmente gradevole e sereno. Muniti di una guida ci mettemmo in cammino per vedere le sorgenti del Reno e il resto»: con queste parole il monaco benedettino Placido Spescha descrive la partenza della prima ascensione all’Adula. Non v’è dubbio che per lui, «il resto» fosse già allora la montagna che si ergeva alle spalle del ghiacciaio.

Attorno al 1800, Giuli Battesta Spescha – questo il suo nome all’anagrafe – era una delle personalità di maggior spicco dei Grigioni. Ciò che Belsazar Hacquet fu per le Alpi orientali e Horace-Bénédict de Saussure per quelle occidentali, padre Placido Spescha lo fu per le montagne grigionesi: uno dei primi «divoratori di vette» e, al tempo stesso, il precursore di una nuova consapevolezza alpina. Le sue imprese erano sempre associate allo studio della natura. Raccoglieva piante, cristalli e pietre, disegnava mappe e redasse addirittura delle istruzioni all’indirizzo di chi viaggiava per le montagne.

Serata in capanna con i pecorai

In quel 1789, per il dinamico monaco la prima ascensione dell’Adula giunse praticamente inattesa. In realtà, tre medici della pianura intendevano raggiungere Medels, nel Rhein­wald, per vedere la sorgente del Reno posteriore. Sbagliarono però strada e finirono nella Val Medel, presso Disentis, dove ingaggiarono il monaco come guida. Dopo due giorni di marcia, il quartetto raggiunse «Rhein» (Hinterrhein), dove trascorse la notte.

Anche noi partiamo da Hinterrhein, e come a Placido, dopo un paio di giorni di cattivo tempo, le cime delle montagne ci appaiono coperte di neve. Il monaco descrive così il prosieguo della salita: «Il Reno scorre da fiume fuori da una volta di ghiaccio e rumoreggia attraverso le pietre dell’alpe. Abbiamo attraversato il lungo ghiacciaio del Rheinwald senza interruzioni o pericoli […].» Oggi, di quel ghiacciaio rimane ben poco da vedere; interruzioni e pericoli incombono tuttavia dall’altra parte, poiché nel suo primo tratto la via per la capanna passa attraverso una piazza di tiro per carri armati, con piste in calcestruzzo e fianchi di montagne dilaniati. È una fortuna che oggi le armi tacciano.

Ma subito dopo esserci lasciati alle spalle la prima svolta del percorso, ecco aprirsi per noi la selvaggia e romantica Zapporttal, con un alpeggio dove d’estate pascolano circa 600 pecore. Il gregge è affidato a Fabrizio, un pastore proveniente dalla zona di Bergamo. In lui ci imbattiamo la sera, alla Zapporthütte. Assieme a un collega e al proprietario degli animali intende cercare una pecora con il suo agnello che hanno apparentemente mancato lo scarico dell’alpe.

Siccome la custode della capanna è già scesa a valle, occorre innanzitutto togliere le gelosie, spaccare la legna e accendere il fuoco. Abbiamo portato con noi degli spaghetti, i pastori distribuiscono prosciutto e pancetta. Raccontano vivaci aneddoti della loro vita con le pecore. Tra non molto, accompagnati da cane e asino, attraverseranno l’Altopiano con grandi greggi transumanti.

La fiducia nei pastori di pecore bergamaschi sembra risalire a oltre due secoli or sono: nella relazione di padre Placido si legge infatti che, dalla Zapportalp aveva preso con sé un pecoraio di nome Antonio a titolo di sicurezza.

Un ghiacciaio scomparso

La salita alla Zapporthütte costeggia il buio «Höll», inferno: un labirinto di gole che il giovane Reno posteriore percorre. «Paradies» – paradiso – è il nome della zona di rimpetto, sull’altro versante della valle. Questo pascolo verde dà anche il nome al ghiacciaio la cui lingua, ancora 150 anni or sono, arrivava fin quasi alla capanna. Oggi, il Paradiesgletscher si è interamente ritirato dalla conca della valle. Perciò, durante la salita all’Adula ci imbattiamo in stambecchi al pascolo, che il nostro passaggio lascia praticamente indisturbati.

Ore più tardi, dalla vetta osserviamo la regione delle sorgenti del Reno posteriore. Un paesaggio dal fascino raro, levigato dai ghiacci, rosicchiato dall’acqua, frantumato in pietraie e detriti morenici. La salita è stata praticamente priva di difficoltà, forse con l’eccezione della ricerca della traccia lungo la cresta nord, dove abbiamo incontrato abbondante neve fresca.

Ben diversamente di Spescha, la cui impresa si rivelò ben più complicata a causa dell’equipaggiamento lacunoso. Quando con il suo gruppo raggiunse la Läntalücke, gli eventi precipitarono: «Quando la nostra guida vide la profondità della Lentathal, con il suo e altri ghiacciai […], si rifiutò di proseguire con noi. […] Solo l’intrepido pecoraio andò avanti, con me dietro e i signori al seguito. Ben presto, colui che mi seguiva afferrò la mia tonaca, e gli altri la giacca di chi li precedeva. Tenere e trascinare i tre dottori mi diventava sempre più difficile, e per la mia sicurezza mi aggrappai allora anch’io all’orlo dell’abito del pastore.»

«Mi no, mi no!»

Poiché nel suo ultimo tratto la cresta nord diventava molto più ripida, il benedettino decise di attraversare il Läntaglet­scher per proseguire la salita da nord-ovest. Ma ben presto anche i tre medici videro scemare il proprio coraggio, e alla fine neppure Antonio voleva proseguire. Il bastone gli era sfuggito di mano ed era andato a fermarsi proprio prima dell’orlo di un crepaccio. La cosa lo aveva terrorizzato, e a ogni richiesta di andare avanti avanzata da padre Placido opponeva un «Mi no!» (io no!). Al monaco non rimase quindi che raggiungere la vetta da solo, senza ramponi né piccozza. Dal punto di vista alpinistico, un colpo da maestro.

Oggi è quasi tutto com’era allora. Innumerevoli cime solleticano il cielo e diffondono un’aura di eternità. Valli alpestri profondamente scavate, una solitaria traccia di passi che porta oltre il Läntagletscher. E laggiù, lontano, quella che si profila sulla rocciosa cresta settentrionale, non è forse la figura tarchiata del benedettino?

Anche durante la discesa, lungo l’esposto versante orientale, i nostri pensieri corrono a Placido, che dopo la sua prima non ebbe di che soffrire solo delle bruciature causate dal sole e dell’accecamento dovuto alla neve, bensì – cosa ben più pesante – dell’assenza di stima dell’abate.

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