Il selvaggio Mustang domato | Club Alpino Svizzero CAS
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Il selvaggio Mustang domato Una pista sterrata sconvolgerà la cultura dell’alta valle

Nonostante si situi a nord della cresta principale dell’Himalaya, l’antico regno del Mustang appartiene politicamente al Nepal. All’ombra monsonica dell’Annapurna e del Dhaulagiri, nell’alta vallata desertica si è formato un paesaggio ricco di canyon e di bizzarre forme dovute all’erosione. Ma la regione sarà presto raggiungibile con una strada.

«America yag po do», mi grida l’anziano oltre il campo mietuto. È in piedi nella luce dorata della sera, e abbevera il suo cavallo a un piccolo canale di irrigazione che si snoda simile a un nastro d’argento attraverso i campi terrazzati di Lo: «L’America è bella.» No, cerco di replicare io nel poco tibetano che mastico: «Troppe automobili, troppa fretta. Mustang pe yag po do!» cinque giorni di marcia attraverso una natura e una cultura intatte aprono il cuore. Abbattono i ritmi, accrescono la sensibilità. A sud risplendono candidi i ghiacci dell’Annapurna. Davanti ad essi, strati erosi in toni rossi, grigi e ocra. Profondi canyon, configurati in modo bizzarro dall’acqua, dal vento, dal freddo e dalla gravità. Il verde rigoglioso delle oasi coltivate attorno ai villaggi. Architetture arcaiche, armoniosamente inserite nel paesaggio. Monasteri e case spiccano nelle montagne come cristalli bianchi e rossi.

 

Mietitura a Lo Manthang

Ancora pochi passi e si supera il valico. Ecco Lo Manthang, la città reale, vicina al confine con il Tibet. È il tempo del raccolto. Le contadine cantano e trebbiano con il correg­giato. Numerosi cavalli sono attaccati a un palo. All’interno il più giovane, con il percorso più breve; il più robusto avanza all’estremità esterna. Gli uomini li fanno girare fischiando da secoli, mentre il grano si spezza sotto i loro zoccoli. Una donna più anziana chiama il vento, affinché sceveri il grano dalla pula. Infine, le mani dei contadini si immergono nel frutto del raccolto e riempiono grandi sacchi di colza. I regali che l’estate ha concesso loro, li trasportano a spalla nei magazzini della città.

Due giovani donne mi chiamano: «Portaci con te nel tuo paese!» «Rimanete qui,» rispondo, «è molto più bello! A casa mia si può solo starsene seduti davanti a un computer.» «America pe yag po do», grida ancora da lontano l’anziano: l’America è molto bella. La strada, in costruzione da una decina d’anni, finirà per cambiare ogni cosa. Per ora è ancora solo una pista sterrata, e neppure continua, lungo la quale si incontrano ben pochi veicoli. A impedire il passaggio delle macchine è una ripida barriera rocciosa. Ma ben presto anche quest’ultima lacuna sarà colmata.

Una cultura che conosce da secoli uno sviluppo lento e appena percepibile si vedrà cosí precipitata nel presente. Oggi, quello che si compie fin qui è ancora un viaggio nel Medio­evo. In un paradiso, pure con le sue ombre. Le cosiddette conquiste della civiltà sono assenti. Gli agi, le libertà; l’istruzione e il sapere. Il prezzo è una vita umile: bucati nell’acqua gelida del ruscello del villaggio, morti per malattia, carenza di cure mediche. Ciò nonostante, l’annunciata scomparsa di questo mondo non riempie di semplice nostalgia, ma di profondo dolore.

 

Il primo bianco, uno svizzero

Tra l’Annapurna e il Dhaulagiri, il Kali Gandaki si è scavato la più profonda valle della Terra. Le pendici degli ottomila precipitano per 6000 metri sino alle rive del fiume. Un trekking nel Mustang è un’escursione in un fondale marino preistorico. A 3000 metri di quota, nel letto del fiume Kali Gandaki si trovano fossili di ammoniti che abitavano il Teti, il mare primordiale. Con una forza inimmaginabile, la placca continentale indiana si sposta oggi ancora di cinque centimetri l’anno verso nord, scivolando sotto la massa continentale eurasiatica e spingendo verso l’alto l’Himalaya – la cui crescita viene più o meno compensata dall’erosione. Non sorprende che il geologo Toni Hagen fosse affascinato da questa regione. Il ricercatore svizzero fu il primo bianco a raggiungere il Mustang, nel 1952. Grazie alla sua nomina a geologo governativo del Nepal, Hagen era autorizzato a studiare anche le regioni più discoste del paese. Nel 1952, compì l’intero percorso da Kathmandu a Pokhara e a Lo Manthang a piedi e a cavallo, accompagnato da 300 portatori con il materiale della spedizione. Hagen rimase in Nepal per anni, e visitò più volte il Mustang. Divenne così un testimone del dramma dei profughi tibetani, per i quali cominciò a impegnarsi diventando capo delegazione del Comitato internazionale della Croce Rossa.

 

Fuga dalla repressione

Dal 1959, con l’inizio dell’insurrezione del Tibet contro le forze d’occupazione cinesi, decine di migliaia di tibetani tentano di fuggire attraverso l’Himalaya dalla repressione che regna nel paese. Poiché il Kora La, sul confine settentrionale del Mustang, è il valico più basso tra il Tibet e il Nepal, molti tibetani si sono rifugiati nel Mustang, dove sono stati assistiti dal CICR. Ma non solo dei semplici profughi hanno cercato rifugio nel Mustang: da qui, sostenuti dalla CIA, operavano anche i guerriglieri tibetani khampa. La CIA si era accordata con loro affinché nel Mustang stazionassero 300 combattenti tibetani addestrati in parte nelle operazioni di guerriglia sulle Montagne Rocciose. L’affluenza fu enorme, e i khampa si ritrovarono ben presto con 10 000 combattenti. Penetravano con il buio e la nebbia attraverso i passi ghiacciati e sferravano riusciti attacchi contro l’esercito cinese e le sue linee di rifornimento. Il Nepal si vide presto confrontato con la presenza sul suo territorio di un esercito essenzialmente tibetano. Quando poi Nixon cercò l’avvicinamento alla Cina, nel 1974 la CIA abbandonò da un giorno all’altro i khampa a se stessi. Il governo nepalese chiese ai combattenti di deporre le armi, minacciando l’invio nel Mustang di 15 000 soldati. I khampa erano però decisi a portare avanti la loro lotta per la libertà del Tibet. Il Dalai Lama temette un bagno di sangue. Convocò Toni Hagen e registrò su nastro un appello ai guerriglieri khampa affinché cessassero la loro lotta. Hagen portò il nastro nel Mustang e lo fece ascoltare ai combattenti per conto del Dalai Lama. Fu senz’altro un momento topico. Alcuni rifiutarono la richiesta del Dalai Lama e vennero sterminati nella ritirata. Altri si tolsero la vita per la disperazione. La maggior parte, però, depose le armi e si arrese. Oggi quei superstiti vivono in semplici case di riposo per ex guerriglieri nei dintorni di Pokhara.

 

La scuola del Lama Ngawang

Nel 1963, un altro svizzero ebbe modo di visitare una regione preclusa ai turisti. Robert Jenny lavorava in Nepal per Helvetas, l’allora opera svizzera di assistenza per i paesi extraeuropei, tra l’altro come pilota di uno dei due Pilatus Porter che l’aiuto svizzero allo sviluppo aveva stazionato nel paese. Il suo compito era di valutare nuovi sistemi di irrigazione nel Mustang. Jenny è rimasto strettamente legato alla regione, e oggi ancora sostiene a Lo Manthang la Great Compassion Boarding School (GCBS). Fondata dal Lama Ngawang, un monaco del grande monastero di Choede Gompa, è attualmente frequentata da circa 200 alunni, per la maggior parte bambine. La scuola è molto amata. Infatti, diversamente dalle scuole statali, le sue lezioni non si tengono esclusivamente in nepalese e inglese, ma nella loro lingua madre, il tibetano. Il Lama Ngawang è convinto che proprio la formazione delle donne sia importante. Ha visto troppe volte i bambini non riuscire nei loro compiti a casa perché i loro genitori erano analfabeti. E poiché normalmente sono le madri ad accudirli, chi oggi porta a termine la scuola potrà essere in grado domani di sostenere i figli nella formazione scolastica. In questa società altrimenti fortemente impregnata di gerarchia e tradizione, il Lama Ngawang è un terremoto e una persona originale e moderna. Per finanziare la scuola gestisce anche un alloggio per trekker con acqua calda corrente e docce: un lusso che, dopo i cinque giorni di marcia da Jomosom a Lo Manthang, ci si concede volentieri. E ovviamente, viaggiare nel Mustang è oggi molto meno disagevole che non ai tempo di Toni Hagen.

 

Automobili, autobus e trekker

La via normale porta da Kathmandu in aereo a Pokhara e, il giorno successivo, a Jomosom. Se le condizioni meteo non permettono di volare, si può optare per la strada. Si percorre in quota l’Annapurna Trek e si può osservare nel contempo cosa la futura strada riserverà anche al Mustang: automobili e corriere che lottano nel fango. Gli scoscendimenti interrompono di continuo l’avanzamento. A quel punto, la cosa migliore è portarsi il bagaglio dall’altra parte, dove generalmente un altro veicolo è in attesa di clienti. A volte si preferirebbe continuare a piedi, soprattutto quando, bene esposto sopra ripide gole, l’autobus avanza nel fango più di traverso che non diritto. E i trekker dell’Annapurna sono lì, con le gambe inzaccherate, sul margine della strada lungo una delle più belle e amate escursioni del mondo.

A Jomosom ha inizio il vero e proprio viaggio nel Mustang. A Kagbeni, la porta dell’alta valle del Mustang, sorge il posto di controllo. Qui va esibita un’autorizzazione del costo di 50 dollari US al giorno che bisogna procurarsi a Kathmandu. Per una visita all’alto Mustang il conto è di almeno dieci giorni a persona. Purtroppo, però, il denaro sparisce nelle tasche dei funzionari corrotti della capitale: un importo considerevole, se si pensa che ogni anno 2000 turisti visitano Lo Manthang.

 

Un giorno invece di cinque

E anno dopo anno, la strada avanza. Martelli pneumatici e scavatrici scavano incessantemente nel sensibile ecosistema dell’alta valle. Il percorso da Jomosom, su fino a Lo Manthang può già ora essere coperto in un giorno, in camion lungo il letto del fiume oppure con la jeep attraverso i villaggi. Negli antichissimi caravanserragli che fiancheggiano una delle più importanti vie commerciali dell’Himalaya gli ospiti si faranno sempre più rari. Qui transitarono per secoli i mercanti di sale tibetani, che si recano in Nepal e in India per scambiare la propria merce con del riso. Dopo che l’occupazione del Tibet da parte della Cina pose fine del commercio del sale, percorrere da turista a piedi o a cavallo queste antiche vie sembra un proseguimento naturale della tradizione. Oggi i mercanti di sale non pernottano più nei villaggi, e a fornire una fonte di reddito alla popolazione locale sono invece i trekker.

 

Sviluppo e profitto: per chi?

La strada porterà senz’altro lo sviluppo. Ma chi sarà a beneficiarne? Un altro genere di turismo porterà più clienti nel capoluogo. I benestanti investiranno. Ma che ne sarà dei villaggi lungo la strada? Chi vi si fermerà per trascorrere la notte, se il tratto potrà essere coperto non in cinque, ma in un solo giorno? Le prime vittime saranno i contadini più poveri, che appena hanno di che sostentarsi. Loro non hanno beni o eccedenze che, grazie alla strada, potrebbero cercare di vendere in città. E, come le prime esperienze fatte in altre regioni lasciano presagire, neppure la speranza che grazie al trasporto su gomma il prezzo del riso possa diminuire sembra pronta ad avverarsi. E politicamente, cosa cambierà? Il governo cinese investe ampiamente nella costruzione di strade in Nepal. Già da anni una strada collega Lo Manthang al confine. «Succederà come in Tibet», afferma il 74enne Tarchin, di Samar, «ti regalano una strada con la quale poi ti conquistano il paese.»

Manuel Bauer

Da 20 anni percorre l’Himalaya come fotoreporter per progetti propri e riviste internazionali. Nel 1995 è rius­cito a documentare per intero la fuga di una bimba di sei anni assieme al padre dal Tibet attraverso l’Himalaya e fino all’India. Ha accompagnato il Dalai Lama in qualità di fotografo ufficiale in oltre 50 viaggi nel mondo intero. In marzo farà il giro della Svizzera tedesca con la sua conferenza sul Mustang: www.explora.ch.

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