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Poiché la montagna non appartiene a nessuno L’etica dell’arrampicata: le modifiche delle vie richiedono consenso e sensibilità

Con l’apertura e il risanamento delle vie di arrampicata accade che idee e filosofie diverse si scontrino. I conflitti sono allora inevitabili.

Alcuni la definivano giustizia privata, altri liberazione della parete. A inizio ottobre 2021, gli attrezzatori della via Gran Paradiso ai Wendenstöcke ne annunciavano la prima percorrenza. Solo pochi giorni dopo, tutti i chiodi penzolavano da una corda, arbitrariamente rimossi da arrampicatori locali. La Gran Paradiso si sarebbe molto probabilmente annoverata tra le vie tecnicamente più difficili delle Alpi. E così, ecco aperta la discussione: lo si può fare? Quali regole vigono in montagna? E chi è autorizzato a farle rispettare? Con quale diritto? E a chi, alla fin fine, appartiene la roccia?

Nessuna di queste domande è nuova. Simili controversie non sono mancate, in passato. Nel gennaio 2012, Hayden Kennedy e Jason Kruk avevano rimosso gran parte dei chiodi a espansione dalla classica Kompressorroute del Cerro Torre, in Patagonia. Volevano riportare la montagna al suo «stato originale» e ripristinare una sfida alpinistica. National Geographic ha riferito dell’impresa e dei disaccordi in un lungo servizio. Solo che il primo scalatore aveva probabilmente un’idea diversa. E in realtà, esiste una legge non scritta secondo la quale, dopo l’apertura e la prima, una via non dovrebbe mai essere modificata – a meno che il suo apritore non dia il suo consenso.

Usanze dalla crescita organica

Con il passare degli anni, giunge a un certo punto il momento in cui, per continuare a essere percorsa, una via deve essere risanata. Come nel caso di Supertramp, al Bockmattli di Svitto, attrezzata e percorsa per la prima volta nel 1980 dal pioniere dell’arrampicata Martin Scheel.

L’estetico tracciato è ben presto diventato una classica delle Alpi e una pietra miliare dell’arrampicata sportiva alpina. Un quarto di secolo dopo, il risanamento è inderogabile. Scheel dà luce verde, solo se si limita alla sostituzione del materiale esistente – ma alla fine, nella parete ci sono oltre 30 chiodi in più. L’accordo non era questo. Degli amici lo fanno notare a Scheel e propongono la rimozione dei chiodi eccedenti. Lui approva, e poco tempo dopo la via torna quella di prima.

Per alcuni, la roccia e le montagne sono un luogo di libertà, un’oasi dell’autorealizzazione. Qui le regole sarebbero fuori luogo, esattamente quanto gli «autoproclamati apostoli dell’etica». Di regole fisse, in realtà non ne esistono, ma nel dibattito Martin Scheel fa riferimento a «usanze cresciute in modo organico» che devono essere considerate. Poiché assieme alle persone che in esse si muovono, i siti di arrampicata sviluppano una vita propria, una tradizione che va rispettata. «Bisogna attenersi ai principi locali», afferma Scheel. Mentre nelle vie di arrampicata alpine i chiodi sono usati con parsimonia, con punti di assicurazione regolari le palestre di arrampicata e le vie plaisir offrono maggiore sicurezza. E di spazio ce ne sarebbe per tutti, non tutto deve trovarsi nello stesso luogo.

«Ovviamente non posso neppure pretendere che, in un determinato luogo, una filosofia non venga infranta», dice Scheel. In fin dei conti, la montagna appartiene a tutti. Per cui prova comprensione anche per colui che rimuove una via «inadeguata». Ma cosa vuol dire, inadeguata? «Dobbiamo stare attenti a non distruggere il carattere di un sito.» Ma ogni chiodo non è sempre uno di troppo. «In alcune delle mie vie, con il risanamento ha senso alleggerire certi passaggi con chiodi supplementari, perché sono troppo pericolose.»

L’importanza di carattere e visioni

In fin dei conti, nulla porterebbe alla possibilità di discutere assieme e trovare un consenso. Tuttavia, in quest’ambito, il carattere di un sito e le visioni di attrezzatrici e attrezzatori avrebbero un peso particolare. Sostiene l’intervento di commissioni locali in grado di individuare soluzioni ragionevoli.

Per il CAS vige il principio secondo cui nelle vie che hanno stabilito «standard di prestazioni riconosciute a livello nazionale» e «di importanza storica alpina» andrebbe sostituito solo il materiale esistente. Dal canto suo, il CAS (SwissBolt) si concentra «sul risanamento di vie e siti di arrampicata orientati allo sport diffuso».

Yannick Glatthard è uno dei due che hanno rimosso la Gran Paradiso dai Wendenstöcke. L’arrampicatore professionista e guida di montagna 23enne sa bene che, con questo, ha cozzato contro qualcuno. Ma se nel frattempo per lui la storia è chiusa, gli echi rimangono. «Oggi abbiamo moltissime vie ottimamente assicurate», commenta. Sarebbe perciò importante che ci siano delle alternative non basate esclusivamente su difficoltà e assicurazioni, soprattutto a fronte della crescente popolarità dell’arrampicata.

Onestà e dialogo

«Il mio approccio all’arrampicata è questo: mi muovo come acqua sulla roccia», spiega Glatthard. «Una via di arrampicata deve avere un senso, deve seguire la logica della roccia.» E il solo fatto che tra due vie ci sia ancora dello spazio non significa che se ne debba attrezzare una terza. L’importante sono il quadro generale e lo stile di una parete, cui anche le nuove vie si devono adattare. «Ovviamente ognuno può avere il suo stile», dice Glatthard, «ma io mi adeguo. Se non posso attrezzare una via nello stile locale, allora farlo non spetta a me.»

I luoghi come i Wendenstöcke significano per Glatthard anche un ritorno a un’esperienza elementare della natura. «Arrivi a una parete e lei non ti regala nulla», dice. «Lo trovo onesto. Dalle sfide sulla roccia nascono le storie che danno vita all’arrampicata.» Glatthard apprezza i limiti che la natura ci pone. «Se dopo un risanamento nella roccia c’è una quantità doppia di materiale, questo fascino, questa onestà, si perdono.»

Ma anche Glatthard ha imparato che il percorso ideale è lo scambio preliminare – in particolare nei luoghi che vantano una storia importante. E secondo lui, quando tutti hanno la possibilità di esprimersi, normalmente si finisce per trovare un denominatore comune. Ma se così non fosse? «Allora aiuta solo il tempo.»

Scheel e Glatthard sono entrambi convinti che la montagna non appartenga a nessuno. Né si vedono come custodi delle tradizioni, come alcuni li vorrebbero raffigurare. Ciò nonostante, entrambi credono che le storie scritte sulle montagne e le persone che le hanno caratterizzate debbano essere rispettate. Perché sulla montagna hanno apposto la loro firma, proprio come Neil Armstrong ha lasciato la propria impronta sulla luna.

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