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Boschi minacciati dalla selvaggina

In montagna i numeri della selvaggina sono tali da mettere a repentaglio la rigenerazione dei boschi. La Società forestale chiede misure, criticando anche le zone di tranquillità per la fauna selvatica e le bandite di caccia.

La fauna selvatica svizzera sta bene. Molto bene! Nei boschi elvetici vivono 68 500 camosci, 36 000 cervi e 132 000 caprioli, circa dieci volte di più che solo tre generazioni fa. La caccia fatica a contenere l’aumento dei capi, e la prossima zona protetta non è mai lontana. Le bandite federali di caccia occupano circa il 6 percento del territorio alpino, e ogni anno si aggiungono sempre nuove zone di tranquillità per la fauna selvatica nelle quali gli animali possono mangiare indisturbati durante tutto l’inverno. Ma quella che in termini di tutela della fauna può apparire una storia di successo ha anche il suo lato oscuro: «Il bosco soffre», afferma Peter Brang, capo del programma di ricerca «Boschi e cambiamento climatico» dell’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL). In un articolo nella Schweizerische Zeitschrift für Forstwesen lo afferma con chiarezza: «Perché non abbiamo fatto nulla?», ci si chiederà tra trent’anni. Infatti, il costante aumento della selvaggina mette in molti luoghi i boschi a dura prova sino dagli anni 1950.

Della questione si è interessata la Società forestale, che nella presa di posizione «Il nostro bosco ha bisogno della caccia» chiede a cacciatori e autorità di impegnarsi maggiormente contro i danni da rodimento. «In talune parti della Svizzera gli ungulati logorano la rigenerazione dei boschi a tal punto che singole specie di alberi sono totalmente scomparse», chiarisce la SF nel suo scritto. E trova sostegno scientifico in altri lavori del WSL, dove Andrea Kupferschmid lavora da anni sulle relazioni tra i morsi della selvaggina e le strutture boschive. Dopo l’esame di un totale di 49 aree boschive, tra l’altro nei cantoni di San Gallo, Turgovia e Svitto, è giunta a una conclusione: «Si osserva un aumento lineare delle morsicature dei germogli con il crescere delle popolazioni della selvaggina.» E nel suo studio pubblicato nel 2015 si legge inoltre che «in un terzo delle superfici boschive esaminate (circa 250 000 ha), gli effetti della selvaggina sulla rigenerazione del bosco rappresentano un elemento importante».

Ripensare le bandite di caccia

Gli effetti della tutela della fauna selvatica sono particolarmente drastici nella bandita federale di caccia dell’Aletsch­wald. Il Politecnico federale di Zurigo (ETH) e il WSL hanno stabilito che, alla luce dell’evoluzione momentanea, non sarà possibile conservarne a lungo termine la struttura attuale: l’elevata concentrazione di rodimenti impedisce la crescita di un numero sufficiente di giovani piante.

Che il bosco fatichi a rigenerarsi proprio in una zona protetta è sintomatico del conflitto tra bosco e fauna selvatica. Brang vede un fossato tra una parte dei cacciatori e i protettori degli animali da un canto e gli altri fruitori del bosco dall’altro, con gli amici degli animali in posizione favorevole ormai da anni. «Di fatto, in considerevoli parti delle foreste svizzere la funzione dello spazio vitale per poche specie di ungulati ha assunto una posizione prioritaria senza che questo sia stabilito in nessun documento pianificatorio», commenta critico.

Il rodimento attuato dalla selvaggina impedisce anche al bosco di adeguarsi ai cambiamenti climatici, spiega Sandro Krättli, membro della Commissione ambiente e sviluppo del territorio del CAS: a fronte degli attuali numeri degli ungulati, senza interventi di tutela in troppi boschi di montagna si finirebbe per veder crescere solo abeti rossi tra le conifere e faggi tra le latifoglie, che sono varietà di alberi meglio adattate alle temperature più calde, mentre ad esempio gli abeti bianchi, i sicomori e i sorbi cadrebbero vittime degli animali selvatici. Le conseguenze? Il bosco non potrebbe adattarsi e risulterebbe minacciato sul lungo termine.

Brang chiede un ripensamento. Occorre migliorare gli habitat e ridurre il numero dei capi tra gli ungulati. Inoltre, andrebbero ripensate le zone di tutela della selvaggina, in particolare le bandite di caccia: «Erano lo strumento adatto quando gli ungulati erano rari», afferma. L’obiettivo originale delle bandite di caccia era la ricostituzione delle popolazioni selvatiche, mentre in realtà, da ormai poco meno di cinquant’anni se ne conosce un esubero al limite della sopportabilità per le foreste. E nonostante il ritorno di singoli grossi predatori, una fine non si prospetta per ora all’orizzonte.

Considerare il singolo caso

Presso l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) il quadro è del tutto diverso: proprio le bandite di caccia e le zone di tranquillità rappresenterebbero infatti il mezzo adatto per ridurre i danni della selvaggina. «D’inverno contribuiscono a ridurre il fabbisogno alimentare degli animali selvatici, in particolare dei cervi, e possono perciò dar luogo anche a una riduzione dei danni da rodimento», sostiene Claudine Winter, collaboratrice scientifica presso l’UFAM. Durante il periodo di caccia intensa di settembre, nelle bandite di caccia si potrebbe assistere a concentrazioni di cervi, che eluderebbero così la pressione venatoria. In simili situazioni, tuttavia, in diverse regioni già oggi si interviene sulle popolazioni selvatiche anche all’interno delle bandite di caccia.

Sandro Krättli non è d’accordo: «Le zone di protezione non portano necessariamente a meno rodimenti: a essere determinante è piuttosto il numero di animali presenti in una zona», afferma l’ingegnere forestale grigionese. In definitiva non dovrebbe accadere che, a un aumento della popolazione, si reagisca esclusivamente con un’estensione delle zone protette, siano queste di tranquillità o di protezione. Ovvio che in assenza di disturbi gli animali subiscono meno stress, ma – sempre secondo Krättli – la relazione tra queste zone protette e il calo dei rodimenti non è scientificamente stabilita. Egli non mette di per sé in discussione le zone di tranquillità, «ma le zone sono in parte troppo ampie e insufficientemente controllate, il che annullerebbe rapidamente la loro efficacia». Sia la zona di tranquillità di St. Antönien, sia quella di Conters, presso Klosters, sono esempi che andrebbero migliorati, commenta l’ingegnere forestale della Prettigovia. Alla fin fine, più animali non dovrebbero dar luogo a più zone di tranquillità: piuttosto, le popolazioni dovrebbero essere adeguate alle capacità degli habitat – e non viceversa. E anche Andrea Kupferschmid, che dal canto suo si distanzia esplicitamente dalla critica generalizzata a bandite e zone di tranquillità, vede la necessità di un esame più attento: «Andrebbe verificato nei singoli casi dove queste si giustificassero a fronte del mantenimento delle altre funzioni del bosco», conclude.

Fonte

Schweizerische Zeitschrift für Forstwesen, 168 (2017) 4: 195-199

Le specie più minacciate dai morsi

Gli ungulati selvatici mangiano diverse specie vegetali. Nei boschi più alti, i loro morsi interessano soprattutto l’abete bianco e il sicomoro. Nell’area subalpina e nelle zone più basse, oltre ad altre specie, fungono da alimento anche il sorbo, il tasso e il faggio. Secondo Andrea Kupferschmid, dell’Istituto federale per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL), da prendere sul serio è in particolare la minaccia che pende sull’abete bianco. «Questo perché, diversamente da altre specie, offre agli animali nutrimento anche d’inverno», spiega. Ed è inoltre concorrenzialmente meno forte ad esempio dell’abete rosso, per cui la sua presenza ne soffre maggiormente. Alle basse quote il problema è il faggio, «del quale bisogna preoccuparsi, poiché è particolarmente resistente alla siccità», commenta Kupferschmid. In tempi di cambiamento climatico questa è una caratteristica importante, i cui portatori andrebbero salvaguardati.

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