Haute Route - racconto | Club Alpin Suisse CAS
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Haute Route - racconto

Remarque : Cet article est disponible dans une langue uniquement. Auparavant, les bulletins annuels n'étaient pas traduits.

Giuseppe Macchiavello, Rapallo

Percorrere in primavera, con sci ramponi e piccozza, qualche « haute route » delle Alpi, è uno dei modi migliori di andare in montagna.

Sono innumerevoli le « alte vie » - traversate da effettuare in quota, valicando passi e cime e restando sempre aldisopra delle valli e degli abitati — che si possono tracciare collegando due località della catena alpina. Tra questi itinerari realizzabili ci sono quelli più logici, più spettacolari, logisticamente più favorevoli. Da Clusaz a Gelbwald, ad esempio, se ne poteva provare uno nuovo, certamente bellissimo per quanto lungo e impegnativo, attraverso gruppi montuosi affascinanti. Per percorrerlo erano necessari almeno nove dieci giorni. Affiatati veterani di molte « hautes routes », Diego ed Ermanno decisero di tentare insieme anche quella. Si prepa-rarono all' inizio di aprile, e appena il tempo lasciò sperare nel bello stabile si portarono a Clusaz e da là partirono, con ottima attrezzatura e molti viveri. Inoltre avevano già trasportato in una capanna del club alpino, a metà percorso, altri rifornimenti.

Impiegarono le prime tre giornate a superare in tutto il suo sviluppo la lunga catena del Mont Diamant. Trascorrevano le notti nei rifugi, incustoditi e deserti in quella stagione ma tutti dotati di locali invernali di accesso sempre aperto. Di giorno, il sole li accompagnava costantemente nel loro inoltrarsi sui ghiacciai. Come prima scalata, effettuarono quella della Grande Hallebarde, per i salti nord, dopo essere saliti in sci il più in alto possibile; e l' indomani furono sull' Aiguille de l' Anneau Blanc. Le condizioni atmosferiche continuavano a mantenersi perfette. C' era tuttavia una curiosa particolarità. Sin dall' inizio della haute route, aldisotto di loro, tra i duemila e i duemilacinquecento metri, s' era formato e si stendeva in continuazione, ostinatamente, uno sconfinato mare di nuvole, chiare ma fitte abbastanza da impedire ogni visuale. Un fenomeno noto e piuttosto comune: ma quel suo prolungarsi era un poco sconcer-tante. E da un lato li contrariò, perché sottrae-va loro meravigliosi colpi d' occhio. Peraltro, c' era in esso anche del positivo. Nasceva infatti da quella situazione, da quell' andare a lungo per la vastità delle montagne scintillanti sopra lo spumoso velario che s' è detto, una preziosa sensazione fatta di senso di isolamento sempre più acuito, di vago e non spiacevole timore, di stretta ed insperata intimità con l' ambiente: e quasi un' esaltazione ne nasceva. Si sentivano come venuti a trovarsi, in modo fortuito e provvisorio, esiliati a far parte integralmente di quel mondo splendido, per norma assoluta disuma-no. Inoltre, del non poter ammirare gli scenari delle zone inferiori erano ricompensati ampiamente dalla fisionomia ancor più irreale che così emergenti da quel pack di vapori a guisa di favoloso arcipelago, assumevano le selvagge cime ghiacciate, trasfigurate in modo straordinario e magico da ogni alba e tramonto.

Diego ed Ermanno avvertivano entrambi in modo accentuato, in quell' occasione, la speciale atmosfera che durante ogni haute route incornicia la gioia delle ascensioni e delle grandi avventurose discese in sci fuori pista lungo le intatte distese glaciali. Atmosfera creata dalle suggestioni che il termine « strada alta » immancabilmente evoca prima della partenza e che poi fiancheggeranno tutto il cammino; dal senso di fantastico che si accompagna a quel « viaggio » attraverso i deserti delle regioni elevate, grazie al quale negli algidi silenzi nevi e rupi misteriosamente si animano; dal poter, in protratta solitudine, specchiare la montagna in sé stessi. La salita alle punte prescelte e soprattutto lo scavalcamento della successione dei colli e delle breccie celati tra le solenni muraglie, danno l' impressione di procedere in presenza di incantamenti segreti, dei quali nasce il desiderio di scoprire l' origine o quantomeno di portare il segno dentro di sé, sotto forma di struggente nostalgia, al momento di tornare verso il basso.

Neppure il quarto giorno portò cambiamenti, in sostanza. Il mare di nuvole si era dissolto, ma quando ebbero risalito il ghiacciaio di Griera, incuneato tra scarpate gigantesche, e pervennero al Col Raide affacciato verso fondovalle, furono circondati dall' avanguardia di uno schieramento di brume uscito all' improvviso da dietro uno sperone laterale. Il panorama fu bruscamente abolito prima che potessero goderne. Appena si furono abbassati nel canalone del versante opposto, che obliqua verso un pianoro interno, ritrovarono la miglior limpidezza dell' aria. Ma nel pomeriggio, al Col du Miroir, la scena si ripetè quasi identica. Quella combinazione, spiegabile probabilmente con qualche leggera perturbazione locale vagante a quell' altezza, era tuttavia sorprendente, per non dire sospetta...

Ma la loro haute route era destinata a continuare in modo ancora più strano. Sempre più pareva che la montagna ricorresse ad ogni artificio per impedire ai due uomini di mantenere un collegamento anche solo visivo con le regioni abitate.

Durante i quattro giorni che seguirono, nello stupendo tragitto attraverso le Sept Coupoles ed il massiccio del Pic des Rafales, singolari coinci-denze si susseguirono infatti, in modo inverosimile. Il bel tempo perdurava, in linea di massima; eppure, quando si avvicinavano a qualche crinale o passaggio panoramico, mobili sipari di nebbia giungevano puntualmente a precederli, da imprevedibili direzioni. E ancora: un vento forsennato li costrinse a rinunciare all' attraver della Fenêtre d' Azard e a compiere invece un giro vizioso; una gran tormenta li accolse anche sul vertice della Pointe Anne-Ma-rie, quando vi sbucarono dal riparato canale Lacoste, e con ondate di tramontana e vorticare di schermi nevosi strappati ai nevai del versante settentrionale li ricacciò immediatamente. Se da qualche rifugio c' era visuale verso sia pur minimi segni di insediamenti umani, buio, o stagnar di vapori, qualche effimera nevicata persino, sempre bloccò i loro sguardi che sempre più insistentemente si protendevano.

Mai insomma verso le contrade inferiori riuscirono a vedere aldilà dei più alti e solitari valloni. Pensavano ora - Diego infine lo confidò ad Ermanno - che non fosse soltanto il caso a co-mandare gli sbarramenti di foschia, i brumosi fantasmi. Era come se di quella « alta via » le montagne volessero fare una dimostrazione di come esse possano, con irresistibile intrigo, imprigionare facilmente l' animo umano, rin-chiudendolo in una sorta di chimera e convin-cendolo che per quanto figurino estranei, lontananti, indecifrabili, loro, i picchi che evadono dalla terra, esistono soltanto perché l' alpinista li salga, qualche volta persino vi si perda tra i miraggi sfarzosi di un tragico destino.

Infatti le vette che li circondavano sempre maggiormente stavano prodigandosi per far apparire la costrizione nella quale li tenevano un inconveniente trascurabile, anzi cosa vantag-giosa. Qualche sottile spiraglio esse sembravano intenzionate ad aprire per loro due nella remota astrazione della quale in continuità gli spiriti dei monti si ammantano.

Tinte meravigliosamente cangianti, alternarsi di luci pallide o abbacinanti e di sfumate o perentorie ombre; stagliarsi di profili stilizzati nel nitore, o arretrare, nelle temporanee caligini, di sagome estranee alla realtà; perfezione di candore e di pace, poi maestose canzoni di vento, echi abissali di valanghe: anche se avvezzi alle solitudini dell' alpe, Diego ed Ermanno sentivano che tutto ciò si manifestava con varietà ed intensità eccezionali, sino a trasformarsi in insistenti voci interiori. Credevano di avvertire intorno a loro un concentrarsi dell' inconoscibile fluido che origina le magie delle altitudini; e si rendevano conto che a poco a poco erano giunti a comportarsi da trasognati. Un' arcana frattura — così fantasticavano — si stava formando tra essi che in una specie di ebbrezza forzavano sempre nuovi ostacoli avanzando nel cuore dei monti, e la loro abituale vita di pianura, laggiù ben più lontano dei sottostanti paesetti alpestri che non riuscivano da lunghissimo tempo ( loro sembrava ) a scorgere più e la cui esistenza diventava in un certo senso addirittura dubbia.

Nel mattino del nono giorno, come sfondo di un altopiano nevoso che stavano percorrendo, videro avanzare da meridione verso lo Sneg-horn e i suoi satelliti, ultima e già iniziata tappa del loro « viaggio », un convoglio di nuvoloni: cumuli sontuosi, dagli orli risplendenti. I loro culmini erano più alti delle montagne verso cui erano diretti, ma non si rovesciarono oltre. Cor-renti d' aria contrarie - o che altroli fermarono contro le chine su cui i due sciatori stavano allora prendendo ad inoltrarsi in orizzontale.

Per tutto il pomeriggio questi proseguirono tra il flusso di quella fiumana che dilagava; le strutture più poderose ne erano sommerse, una dopo l' altra svanivano; solo di tanto in tanto rinascevano, in stretti spacchi di azzurro, scorci di pareti o di pilastri, spettrali, arcani nel vorticare lento dei vapori: architetture irriconoscibili. I due sviarono, in qualche punto. Non rin-tracciarono il rifugio Knubel e dovettero bivaccare all' aperto.

Quando ripartirono, alle prime luci, fitte cortine li circondavano ancóra. Stimando di essere in prossimità del Naden-Pass, iniziarono quasi subito la discesa nella speranza di indovinare la direzione verso Gelbwald. Dovevano abbassarsi lungo il ghiacciaio di Stalen e i declivi del Silberhorn e del Kreutzberg, che si collegano al fondovalle: distanza normalmente percorribile in poche ore sugli sci.

S' erano ingannati? La loro velocità era assai ridotta a causa della scarsissima visibilità, ma ciononostante procedevano con continuità: come spiegare il tempo esagerato - tutta la mattinata — che impiegarono per portarsi nella parte finale del ghiacciaio? Era quella, almeno, la colata dello Stalen? Non se ne sentivano affatto sicuri, mancava nel grigiore ogni punto di riferimento. La nebbia infatti s' era vieppiù chiusa intorno a loro, prudenza e lentezza crescenti si imponevano. Un lungo corridoio tra una seraccata e una morena grottescamente incappuccia-ta di neve, diede accesso a dei pendu che avrebbero dovuto essere quelli del Silberhorn; continuarono; ma come spiegare, nelle ore successive, la lunghezza della pista che i loro sci interminabilmente disegnavano?

Il pomeriggio stava rapidamente trascorrendo. Si sentivano del tutto fuori strada. Probabilmente là in alto, all' inizio, s' erano spinti per errore su un altro ghiacciaio, ed erano poi finiti sui fianchi di monti sconosciuti, alla volta di una vallata secondaria. Ma per quanto incavata essa fosse, perché, a furia di perdere quota, non ne raggiungevano il fondo?

Ogni tanto si fermavano, scambiandosi le loro impressioni. Si chiedevano dove e se sarebbero arrivati. Avevano la sensazione di agire inutilmente. C' era proprio di che convincersi che la montagna questa volta volesse farli suoi, trattenerli nel suo dominio. Né, stranamente, se ne preoccupavano. Qualcosa di essi, anzi, s' era fermato e si fermava serenamente, felicemente indietro, lungo gli alti declivi immacolati e sme-moranti; a pensarci bene, più a malincuore che in ogni altra occasione, e solo per richiamo di umani affetti, essi si allontanavano, o tentavano di farlo, dal regno del biancore, dalle purissime « spiagge del cielo », per tornare all' esistenza di tutti i giorni.

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