Valle Bavona
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Valle Bavona

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Soave partenza!

Monti violacei, nel sol vespertino, innanzi ai miei occhi! Pizzo Ruscada, ritto sempre alle mie spalle, triangolo immane, colonna estrema del mondo! Un vento errante mi sfiora la fronte. II mio passo di convalescente bene ancora mi porta. 0 gioia!

La Valle Bavona mi accoglie fra due pareti di roccie. Nessuna valle, per si lungo tratto, è fatta così. I due versanti, bene spesso, sono ugualmente tagliati a picco. Sopra, altro non c' è che l' azzurro. Sotto, gran rovinio di frane, castagni giganteschi, rombo di fiume corrente.

Così grande rupe pezzata, grigiastra e giallastra, mi pende, a un certo punto, sul capo, che, con un sottil riso, sento in me l' impulso di fuggire. Così enorme macigno ingombra e opprime un prato che io guardo subito su per le cime onde un giorno cadde tonando. Chissà che un altro, compagno a questo, non rotoli giù questa sera! Sarebbe un bel caso. Io fuggirei come il vento. La gente verrebbe, gridando a vedere. Poi ci farebbe su, come usa, un orto piccolo o un campo. E, per salirvi, ci appoggerebbe una scala.

In verità soltanto la mia fantasia può immaginare tanto disastro. La valle è così quieta, così pacifica, così estatica che veramente proprio nessun rumore insolito si ode fuor del digrignio che i miei chiodi fanno sui sassi. Sarebbe meglio camminare con quei « peduli » che usano su di qui; taciti e lievi come una lana. Oppure andare a piedi nudi, come facevo una volta, candidamente, silenziosamente, a guisa di un' ombra...

Ma non son più abituato e chissà come andrebbe a finire. Rassegnamoci dunque allo strepito di questi scarponi ferrati. Rassegnamoci alla scorticazione che infliggono ai miei poveri calcagni. La gioia bisogna pagarla cara.

Ogni « frazione » mi ferma col suo tacito incanto. Accarezzo il muso alle vacche che, sui margini della strada, vanno in gran pace pascendo. Metto l' occhio nelle chiesuole odorose d' incenso. Esploro, fra le stalle e le ultime vigne, gli abituri ove stanno gli uomini buoni.

Da un' ora, a dir poco, non vedo e non incontro nessuno. Sono solo e non bramo compagnia. Di solitudine mi cibo come di aria e di pane. Sento così bene di non aver che me stesso, questo corpo fragile, quest' anima tremante. Ma due compagni incomparabili fedelissimi, amorosissimi son sempre meco: la terra ampia ed il cielo.

Ogni tanto, sopratutto a man ritta, i fianchi della valle son così profondamente franti e spaccati che pare una cosa dell' altro mondo. Il torren-taccio vittorioso sbuca fuori lento dal baratro. Spunta, scompare, rispunta fra i macigni terrosi. È come una belva ammansata che, sa un giorno ali' altro si gonfia d' infinita rabbia, addenta la montagna alla radice, scuote, con incessante morso, con incessante ululo, la valle attonita e il mondo.

A Foroglio c' è il rombo che piace a me. Rombo di cascata che frana giù, bianca e spumante, dall' alto; rombo di fiume grigio contro argini grigi; rombo di percossa aria e di echi sempre vibranti. Qui bisogna sostare fra acqua e acqua, guardar bene a destra, bene a sinistra sentir sé inermi fra cose violente. Il ponte, sospeso su due fili di ferro, ondeggia sotto i miei piedi. Il mio passo, come quello d' un ragazzo pauroso, si affretta. Tocco terra correndo e ridendo. Ma quel matto di un cuore mi batte anche troppo.

La dolce sera già pensa a placarmi. L' urto dell' acqua fra i sassi irti si attenua. Le tinte più vive e squillanti si spengono. Il viola si stende, più vaporoso e morbido, fra il verde. I colori che si smorzano quaggiù, improvvisi divampano in cielo. Mi passa sul capo così gialla e rosea nube che bisognerebbe sedersi a lungo sull' erba per vederla regalmente bella e lenta per l' azzurro mare navigare. Dalla vetta altissima e violacea del Basodino balza giù un torrentello bianco che sembra sgorgare, senz' altro dal cielo sereno.

A Gannariente l' alta chiesuola, gli ampi castagni, gli enormi infiniti macigni fanno addirittura la notte. Il campanile quadrato con la bellissima punta aguzza, regge nell' aria oscura la campanina silente. I sedili del vasto portico m' invitano invano a sedere. La chiesina è vagamente illuminata e bisogna guardarci dentro. Una lampada rossigna, sospesa innanzi ali' altare, assai pacatamente arde.

Come mai? domando a un giovanotto che mi raggiunge ansando forte sotto la gerla.

L' avrà accesa qualcuno per ottenere una grazia.

Il mio buon convalleranno, procedendo al mio fianco nell' ombra, molte cose preziose mi narra. Sostiene che dove ora sono i macigni orridi, sorgeva anti-camente, una frazioncella vivace. Un brutto giorno piombò giù mezza montagna, sepellì capanne, stalle, uomini, bestie, risparmiò soltanto la casetta umile di Dio. Io lo lascio dire. Lo ascolto con estremo piacere, in pace. Parla per la sua bocca quella tradizione che, in ogni tempo, e in ogni luogo, mi fa riverente, buono e pensoso.

Ci avviciniamo, intanto, alla terra cui diede nome San Carlo. L' insigne arcivescovo, dalla sua Milano, forse portò i suoi passi sin qua dentro. Lui, la carità trascinava, noi, la bellezza; lui, amor delle anime, noi, delle cose; lui, il cielo, noi, la terra. Come siamo piccini!

La campana della sera, nel silenzio altissimo, squilla. Sosto dietro l' amico che va colla sua gerla; ascolto con l' anima intenerita sino al pianto; m' inginocchio anch' io innanzi alla notte. È l' ora in cui le donne, nelle cucine oscure, dicono a mezza voce, dopo l' ultima Ave Maria, l' ultimo Requiem pei poveri morti. È l' ora in cui un' ombra ormai nera avvolge le montagne erte, i prati piani, le case basse. È l' ora in cui soltanto vive questo sonante fiume che mi scorre rapido ai piedi.

La terribile piena dell' anno scorso divelse il ponte a due archi che forse il Santo magnanimo vide. Poche assi e poche travi, con due sponde traballanti, ne fanno le veci. L' altro giorno un ragazzino d' un dieci anni, giocando quassù fra cielo e acqua, cadde, fu travolto, miseramente perì. Povero figliuolo! Gli voglio bene oltre la tomba.

AH' albergo mi espellano dalla cucina ove più mi piacerebbe stare. Mi portano di sopra, nella sala dei forastieri, dove, seduto a un lungo tavolo, un tedesco ampio si ciba. Mi lascio cascar su una sedia. Mi lascio servire da una cameriera, tedesca anche lei. Mi lascio infilare in una camera. Finalmente son solo.

Malinconia di ogni contatto con gli uomini. Avrei voluto trovar qui un oste cordiale, con gran richezza di voce e più grande provvista di gioia. Avrei discorso con lui nel più gustoso e squarciato dialetto nostrano. Avrei dato i dolci ai suoi bambini. Avrei trattato bene anche il micio sotto la tavola. L' avrei forse presso sulle ginocchia. Invece ho finito col masticar fiele.

IL Riparto appena fa giorno, con nuova letizia. So la strada, so la strada. Cammino da un' ora quando vedo il sole indorare le cime, alte sul mio capo, del Basodino, sfiorare anche un picciol lembo di ghiaccio, scendere adagio adagio. Io salgo esultando fra il verde.

Campo « montagna » ultima, piede di tutti gli alpi, fra immense ghirlande di lanci! Io sosto nel silenzio del primo mattino. Io guardo. Io passo. I prodigi sono più oltre. Il sentiero s' arrampica sul fianco d' una gola cupa e profonda entro cui brontola il fiume. Un alpigiano vien giù cauto e lento, sotto un gran carico di formaggio. Si ferma a parlare con me. Indovina anche chi sono. Io dichiaro che è un angelo.

0 primavera, primavera che dissi per sempre fuggita, bella festa di fiori, amori e colori, io ti ritrovo quassù! Mi sei tanto più dolce quanto meno, in verità, ti cercavo. Le tue margherite son così grandi, così stellanti che, sopra e sotto il sentiero, verso il fiume e verso la roccia le pendici son tutte una bian-chissima gioia. Non parlo degli altri fiori sparsi qua e là: celesti, gialli, rossi, turchini, potrei riempirne il mio sacco in un solo minuto. Ma preferisco riem-pirne quest* anima desiderosa in cui nulla appassisce in eterno 1 primi raggi del sole mi vengono incontro sui fiori. Le farfalle si levano a volo. Rugiada cristallina, piccole ali d' oro, corolle di tutti i più felici colori! 0 primavera, io ti ritrovò quassù!

Ma non mi posso attardare. Salgo pel sentiero erto, il torrente bianco che rovina già da Lielpe. A un tratto mi vedo piombare quasi sul capo la doppia cascata abbagliante. L' acqua compare sull' orlo dello sbalzo, s' in ruggendo, precipita schiumando e rombando, bolle e ribolle entro una conca piccola, riprecipita più grande, più sonante, più bella. Rocce del più cupo viola ai due lati; ragnatele di verde qua e là; lassù, contro il cielo, un masso erratico, così miracolosamente posato sulla convessa schiena del monte che sembra non toccarla neppure e reggersi, senza sostegno, nell' aria. Vio-lenza di bellissime acque, ruggito eterno, spume volanti! Io levo il capo come in un' estasi. L' ebbrezza mi urge la gola.

Un ponticello, piano come un tavolo, poco più su mi aspetta. Come è dolce transitare così, su un solo asse senza sponde nell' aria dorata, da una bella riva a un' altra ancor più bella! Il sentiero prosegue così riposato che, dopo tanto salire, il camminare è quasi una gioia. Ma nulla vale il piano di Robiei che mi si spalanca innanzi, a un tratto, come un libro.

Il torrente che vien di chi sa dove serpeggia lento fra il verde. Lungo le rive giace sparsa la ghiaia che la piena ampia depose. Laggiù, in fondo, à pie di certe rocce basse, riparate dai venti e dai nembi, le cascine sorprese mi guardano. Non m' hanno mai visto. Non sanno chi sia.

10 mi seggo, intenerito, sur un sasso, appoggio un gomito su un ginocchio le guardo attentissimo. Amico vostro sono, o cascine. Ovunque io veda quattro mura così e un tetto umile e un uscio povero, wi io sosto pensoso. Ho vissuto le vostre gioie e i vostri dolori. So com' è squisita, la sera sotto le stelle, la ricottina tepida e fresca. So com' è angoscioso aspettare, di sulla vostra soglia, il padre o il fratello eh' è andato lontano fra i greppi e ancora non torna. Ho dormito, nei vostri giacigli duri come pietra, più dolci sonni che nelle piume della città soavissime.

Mi alzo, infilo la palancola gettata sulle acque tortuose, cammino sull' erba, non faccio rumore. L' ultima cascina è spalancata. Berrò una tazza di latte. Ripartirò più contento.

Una ragazza e due giovinotti mi ricevono bene. Dal mio dialetto vogliono indovinare di che paese sono. Ma non ci riescono. Io li illumino. Dico di me nome, cognome, patria, provenienza, mestiere, speranze, miracoli... Non nascondo nulla, proprio nulla. Bevo il mio fresco latte ridendo.

Poi salgo ancora un momento, di nuovo mi seggo, di nuovo bevo alle eterne sorgenti. Una gran conca profonda, da alte rocce tutta interno conchiusa, di erranti acque ornata, di pascoli ampi ricca, s' offre d' un colpo ai miei occhi felici. Le mucche vi pascolano così bene sparse che ne vedo una sola alla volta. Si cibano in tutta pace come giocando. Sanno che il giorno è lungo quanto occorre. Fanno i loro campani di diversa voce in diverso modo cantare.

Ecco io non so strapparmi di qui. Di nuovo la terra, la bellissima casa nostra, mi piace tanto in quest' angolo suo che non vorrei partirne mai più. Giuro di tornare. E so che mi aspetta la tomba.

Un ultimo sguardo lungo, un ultimo saluto, un ultimo rimpianto e via. Ridiscendo alle cascine, rifaccio il sentiero, ripasso il ponticello piano come un tavolo. Riprendo la via di prima. Salgo a Lielpe. Il cuore segreto mi trema. So che cosa mi aspetta.

11 sentiero si scosta dal fiume. Invece di attacare il promontorio sassoso che fiancheggia erto le gole fumanti, gli gira alquanto intorno, serpeggia un poco al largo, gli riesce finalmente in cima. L' ansia mi mozza il respiro. Questo è il punto che, in Valle Bavona, più di tutti mi piace.

Qui fui con Leonardo due anni or sono. Qui ho voluto tornare. Iddio benigno l' ha concesso. Il ghiacciaio non mai veduto bene sinora, mi splende innazzi raggiante. Acque diverse ne sgorgano da cento parti, si raccolgono in una gran conca di rocce oscure, e, divenute torrente violento, tagliano pel diritto, bianche, grandi, veloci, la stretta ripida valle che, proprio innanzi ai miei occhi, s' affonda fra rupi violacee. A destra si scorgono le piane di Robiei.

Ai miei piedi il cocuzzolo su cui seggo è assalito, battuto, urtato, minato da così impetuose, sonanti, fumanti acque che il suolo e l' aria insieme ne tremano.

Or eh' io rimanga a lungo quassù. Che io senta, fra tanto urto, temprarsi ad ogni prova, come una buona lama, la mia volontà. Questa è la rupe tragica della vita. Il vento mi strappa i capelli e le vesti. L' ululo del fiume mi assorda, mi assale, quasi mi travolge.

Ma, nonostante i fumi e le spume, i rombi e i rimbombi, le scosse e le percosse, io vedo, con gli occhi più ardenti che mai, la bellezza azzurra, bianca, dorata, affluire verso di me come l' oceano verso la terra.

III.

L' alpe di Lielpe mi inebria di quiete. Su, al primo corte, l' alpigiano sta facendo in tutta pace il formaggio. Attraverso l' uscio cicala alquanto, pur badando al suo lavoro, con me. È un giovinotto grande, membruto, nerboruto. Ampia la faccia e, sulla fronte bianca, gran ciuffo cascante di capelli neri. Siamo amici da un pezzo. Dietro a lui circola una sua sorella anziana e piccola. In un canto è seduta sur uno sgabelletto una ragazzina bionda che, ogni tanto non può fare a meno di sorridere.

Ma io già debbo partire. Cicalare con gente onesta mi piace.Verrò un' al volta. Mi fermerò due mesi. Farò tutti i lavori dell' alpe. Oggi altro mi preme.

Pianto gli amici, volgo le spalle al corte, entro, seguendo il corso del fiume, verso il Lago Bianco. So la strada, so la strada. Passai quella volta con Leonardo. E, come lui quasi si ammazza su al Lago Sondato, così, fra questi sassi, quasi io muoio di fame. Eterna mi parve allora questa che, oggi, è via breve. Ma lascio addietro la mandra bruna che pasce, sospesa a un pendio verde, di là dal fiume. Entro in una conca così ignuda, così ben colorata e crestata, così favolosamente tranquilla che mi fermo a guardarla ad ascol-tarla, a berla tutta con anima assetata. Infilo il sentiero scavato, per lungo tratto, nel grigio sasso. Ancora due passi, due passi soltanto. Il Lago Bianco è sotto i miei occhi. Non vidi mai più candida pace. Bianca di creta è l' acqua che vien giù per una valle ancor pezzata di neve, dal misterioso ghiaccio dei Cavagnoli; bianche le frane, a destra; bianche le rocce a sinistra; bianche le nuvole in cielo. Un vento lieve solleva le piccole onde. L' acqua sprizza faville e scintille. Guardarla è una gioia.

Sulla riva che ho di fronte, in fondo al più pacifico piano che sia al mondo, giace, riposa, dorme il corte. La cascina s' è rannicchiata contro un macigno enorme, biancastro, due volte più alto di lei. Dietro, un torrente vien giù trattenendo lo scroscio. Davanti, una limpida acqua, avviata verso il lago passeggia così lenta che pare ferma in un sogno.

Allungo il passo, scavalco la pietraia in cui l' inverno cancella sempre ogni strada, entro nel corte. Il sole, uscito da un groppo di nubi, incendia la conca bianca, trae barbagli argentei, aurei, rossi dall' acqua dall' erba dai

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